PEANA

- Peana, o perpetuo pianto? – esordisce in apertura di seduta lo pseudo oratore Maurizio - dopo l’esito delle votazioni per il rinnovo del Consiglio Europeo, che ha poco influito sull’assetto dell’Unione, ma ha stravolto il panorama politico nostrano - dobbiamo ridere o piangere?

Questo è il dilemma proposto oggi, allo Zibaldino dal suo capo e conduttore, almeno da un punto di vista putativo, ancora affranto per la batosta subita per quelle sue aspettative,  già difficili da condividere prima e del tutto disattese dopo.

Alexander (Erland Josephson). Still dal film "Sacrificio" di Tarkovsky.

- Peana – continua dopo una breve pausa in cui fa scorrere lo sguardo sui visi dei suoi ascoltatori nella speranza di leggervi un segnale di reazione alle sue parole, che invece non trova, in quanto tutti sono rimasti del tutto indifferenti – è il canto che gli antichi greci innalzavano al dio Apollo, poi divenuto inno di guerra e di vittoria, riservato a personaggi di altissimo livello, infine finito da noi a discorso pleonastico, in favore di personaggi di dubbio valore, momentaneamente in auge, con intenti più che altro derisori.-
Qualcuno accenna un applauso? Manco per niente. Tutti zitti ed annoiati.
- Un peana ben si attaglierebbe oggi alla situazione attuale - riprende deluso -  in cui un popolo distratto, eternamente in cerca di un salvatore, crede di averlo trovato ancora una volta nel peggiore dei possibili candidati, un rustico incantatore di serpenti, armato delle intenzioni più deleterie per la nazione che lui dovrebbe salvare, della quale, fino a poco tempo fa diceva di vergognarsi di fare parte. -

- Un peana quindi – dice a voce alta Chiara nella speranza di risollevare il morale dell'uditorio – al nuovo Alberto da Giussano – e si alza di slancio, con le braccia sollevate, invitando anche gli altri a fare altrettanto - che intende cambiare i connotati (letteralmente) dell’Italia e contemporaneamente, fare la guerra al nuovo Federico Barbarossa che egli individua nel nuovo Consiglio Europeo non sufficientemente depotenziato come egli prima del voto si prefiggeva.
- Lo innalzerò io questo peana - esordisce Matteo, - io che ho l’onore di portare il nome del grande Matteo, non dell’evangelista, non lui, ma di Matteo il Grande, che ha raccomandato l’Italia a Maria Immacolata e solo  Dio sa quanto ora ne abbia bisogno, di quella protezione la nostra povera terra! –
- Io voto per l’Iliade – dice ad un tratto Marta, fresca di studi, con fare civettuolo, agitando la sua frangetta birichina rosso-nera e la minigonna, che quando si siede lascia poco all’immaginazione – voto per il canto VI verso 535 del Poema di Omero: “Ch’altro mi resta che perpetuo pianto?”, già evocato, forse inconsciamente dal nostro anfitrione in apertura di seduta.

Ovviamente il contesto dal quale la citazione è tratta, lasciatemelo dire, anche se sono certa che ognuno di voi lo sappia, è ben diverso. Nell’Iliade è il saluto ultimo, definitivo di Andromaca, che ha in braccio il figlioletto Astianatte, al marito Ettore che sta per affrontare Achille, nel duello mortale che egli sa già che si risolverà a favore del Pelide, avvantaggiato dall’aiuto sleale della dea Atena. Mentre invece noi ci troviamo di fronte all’esito di una votazione, a proposito della quale, il noto editorialista, direttore della rivista “Micromega”, Paolo Flores D'Arcais, ha aperto oggi il suo articolo con questo titolo: “Ha vinto l’Italia pre-fascista e non sarà il PD a salvarla”. I segnali c’erano tutti, fin da molto tempo fa, ma il fatto è avvenuto nell’indifferenza, nell’ abulia e nella colpevole distrazione di tutti gli osservatori politici e politologi, che non hanno voluto prenderli in considerazione.

Non è anche questo un momento decisivo, determinante, oltre il quale non c’è altro che buio e tristezza?

- Ieri sera, in TV, il giornalista Da Milano, ha concluso un suo intervento su questo tema doloroso, con  parole di speranza: “Quando si vota, è sempre una festa e presto la pioggia finirà”.
- E’ dunque a Giove pluvio che dobbiamo raccomandaci?

Dopo questa domanda improvvida (nessuno aveva con sé un ombrello), si scatena un vero parapiglia. Quei sette – otto scalmanati, fanno un chiasso tale che Sebastiano il barista, è costretto ad intervenire:

- Ohi, ragazzi, siete matti? Se qui passa la Digos andiamo tutti dentro! Non sono consentiti riunioni ed assembramenti. Per cui vi ordino di stare calmi. Ah, Maurì, diglielo tu: qui da oggi ci conviene entrare in clandestinità!

Appena ascoltata questa battuta, si sente un gran rumore di sedie mosse, varie voci in dissenso, con qualche “vaffa…”, una gazzarra veramente indegna di una nobile istituzione che vorrebbesi accreditare come vagamente intellettuale.

Maurizio pensa che sia il caso di correre ai ripari e decide di chiudere la seduta in anticipo rispetto al previsto,

- Cari amici, dichiaro chiusa la…

Tutto inutile. Gli ultimi tre sgomitano per uscire dalla porta, i primi sono già al bancone del bar :

- A me una pizza!
- Una birra alla spina, prego.
- Caffè.
- Caffè.

E’ forse questo l’inizio della “Notte della Repubblica”? L’interrogativo è nello sguardo incrociato di Chiara e Maurizio, rimasti soli nella stanza.

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