IL CONFORMISTA
Ci pensava già da qualche giorno, quel fatto di andare a scuola con i jeans strappati alle ginocchia, guidando la macchina di suo padre, il quale poveretto era costretto ad andare in ufficio a piedi, non gli sembrava affatto un gesto rivoluzionario. Poi quando avevano fatto l’occupazione, con quella buffonata dell’autogestione, le istituzioni scolastiche tutte consenzienti, come a dire lasciamoli giocare sti ragazzi, debbono imparare cosa sia la responsabilità, tutti momentaneamente felici di abdicare alle loro funzioni, per un tempo stabilito, in nome di un rito entrato a far parte del sistema, in cui ci si era illusi di stare veramente scrivendo pagine gloriose di storia della liberazione giovanile, dal giogo dei parrucconi, tra quelle chitarre bistrattate da ragazzi modello papa-boys, o quei proclami roboanti di formule sinistrorse, di cui tutti ignoravano il significato, ripetute in quelle assemblee inconcludenti, aveva avuto la sensazione di non essere proprio al suo posto, nonostante avesse fatto parte dei pochi che erano rimasti tutta la notte, con i materassini per terra, in quella gazzarra non ci si ritrovava proprio.
I proclami? Eccoli “Chi sa tace, chi non sa insegna”, roba da far sorridere i presidi più tenacemente tradizionalisti. “Gli insegnanti sono come i libri, che, più sono collocati in alto, nelle librerie e meno servono.”
Il conformista è quello che si mimetizza. E’ quello che per integrarsi, segue tutte le mode. E’ l’essere che si ‘conforma’ a seconda del luogo dove si trova. Non vuole eccellere, ha bisogno di adeguarsi alla massa. Ne segue i riti e i costumi, acriticamente.
Ebbe allora l’idea di farsi ricucire gli strappi alle ginocchia, da sua madre o da sua sorella, (ma alla fine, per vicinanza di idee e per una forma di solidarietà tra cani sciolti era stata Chiara a farlo), e di uscirsene un bel giorno con i jeans in perfetto ordine tra la marea degli sbrindellati che facevano a gara a chi li portava più stracciati. E vedere se erano più anticonformisti tutti quelli che si erano passivamente adeguati a quella che ormai era la dittatura di una moda, sciatta finché vuoi, ma sempre moda, mai atto liberatorio, che ‘rompe’ proprio perché va contro le mode, o lui, Maurizio, che insieme a Chiara, avevano dichiarato guerra alla banalità scervellata, alla volgarità generalizzata, all’insensato rivoluzionismo di chi non aveva nessuna idea da affermare, ma solo lo scopo di darsi una vacanza liberatoria dalla dittatura degli orari delle lezioni.
Se il conformista è una pecora, allora sono conformisti tutti quelli che fanno parte di un ‘gregge’, non quelli che marciano da soli, e che vogliono affermare un’idea che non è quella che corre nella generalità dei cervelli portati all’ammasso. Emergeva ancora più chiaro nella sua mente, che non era una scelta, quella dei sedicenti trasgressori delle regole, in questo caso del buon gusto, ma un bisogno quasi organico di omologarsi, di sentirsi facenti parte di una generazione, che per distinguersi, si doveva inquadrare in forme dirompenti, e fintamente anticonformistiche. Non era la rivoluzione di pochi, era la protesta di tutti gli appartenenti, ed allora bisognava avere il coraggio individuale della scelta, da che parte stare.
Tutto appariva più chiaro, ma loro no, non avrebbero seguito quella strada, meglio volare da soli che nello stormo, meglio lupi solitari che di branco. Ma questo faceva parte della preistoria di Maurizio e Chiara. Ben altri saranno gli incontri e le circostanze con cui si sarebbero dovuti confrontare, nel corso della loro ancora giovane, ma destinata a durare a lungo, vita.
Chiara era assorta e sembrava concentrata su una idea urticante:
“Ho un nipote – disse a Maurizio – di quindici anni, bello, buono, intelligente. E’ bravo a scuola e balla l’hip hop e ascolta il rap. Finora non indossa calzoni strappati. Ma se un giorno dovesse farlo, o dovesse mostrare qualche segno di omologazione, io non saprei cosa dirgli, forse sarei costretta a rivedere le mie idee sulle tendenze dei giovani. O forse, no, mi allontanerei da lui. E se mi limitassi invece, a guardare il tutto con altri occhi? E se cercassi di vedere il mondo non solo come piace a me?”.
“E se un giorno – continuò Maurizio – dovessimo svegliarci ed accorgerci di stare in un altro mondo? Di aver perso ogni contatto con quelli delle generazioni che saranno future?”.
Si guardarono negli occhi e scoppiarono in una risata interstellare. Ma l’universo non aveva l’eco e non rimandò indietro niente.
"Il Conformista" di B. Bertolucci. 1970 |
I proclami? Eccoli “Chi sa tace, chi non sa insegna”, roba da far sorridere i presidi più tenacemente tradizionalisti. “Gli insegnanti sono come i libri, che, più sono collocati in alto, nelle librerie e meno servono.”
Il conformista è quello che si mimetizza. E’ quello che per integrarsi, segue tutte le mode. E’ l’essere che si ‘conforma’ a seconda del luogo dove si trova. Non vuole eccellere, ha bisogno di adeguarsi alla massa. Ne segue i riti e i costumi, acriticamente.
Ebbe allora l’idea di farsi ricucire gli strappi alle ginocchia, da sua madre o da sua sorella, (ma alla fine, per vicinanza di idee e per una forma di solidarietà tra cani sciolti era stata Chiara a farlo), e di uscirsene un bel giorno con i jeans in perfetto ordine tra la marea degli sbrindellati che facevano a gara a chi li portava più stracciati. E vedere se erano più anticonformisti tutti quelli che si erano passivamente adeguati a quella che ormai era la dittatura di una moda, sciatta finché vuoi, ma sempre moda, mai atto liberatorio, che ‘rompe’ proprio perché va contro le mode, o lui, Maurizio, che insieme a Chiara, avevano dichiarato guerra alla banalità scervellata, alla volgarità generalizzata, all’insensato rivoluzionismo di chi non aveva nessuna idea da affermare, ma solo lo scopo di darsi una vacanza liberatoria dalla dittatura degli orari delle lezioni.
Se il conformista è una pecora, allora sono conformisti tutti quelli che fanno parte di un ‘gregge’, non quelli che marciano da soli, e che vogliono affermare un’idea che non è quella che corre nella generalità dei cervelli portati all’ammasso. Emergeva ancora più chiaro nella sua mente, che non era una scelta, quella dei sedicenti trasgressori delle regole, in questo caso del buon gusto, ma un bisogno quasi organico di omologarsi, di sentirsi facenti parte di una generazione, che per distinguersi, si doveva inquadrare in forme dirompenti, e fintamente anticonformistiche. Non era la rivoluzione di pochi, era la protesta di tutti gli appartenenti, ed allora bisognava avere il coraggio individuale della scelta, da che parte stare.
Tutto appariva più chiaro, ma loro no, non avrebbero seguito quella strada, meglio volare da soli che nello stormo, meglio lupi solitari che di branco. Ma questo faceva parte della preistoria di Maurizio e Chiara. Ben altri saranno gli incontri e le circostanze con cui si sarebbero dovuti confrontare, nel corso della loro ancora giovane, ma destinata a durare a lungo, vita.
Chiara era assorta e sembrava concentrata su una idea urticante:
“Ho un nipote – disse a Maurizio – di quindici anni, bello, buono, intelligente. E’ bravo a scuola e balla l’hip hop e ascolta il rap. Finora non indossa calzoni strappati. Ma se un giorno dovesse farlo, o dovesse mostrare qualche segno di omologazione, io non saprei cosa dirgli, forse sarei costretta a rivedere le mie idee sulle tendenze dei giovani. O forse, no, mi allontanerei da lui. E se mi limitassi invece, a guardare il tutto con altri occhi? E se cercassi di vedere il mondo non solo come piace a me?”.
“E se un giorno – continuò Maurizio – dovessimo svegliarci ed accorgerci di stare in un altro mondo? Di aver perso ogni contatto con quelli delle generazioni che saranno future?”.
Si guardarono negli occhi e scoppiarono in una risata interstellare. Ma l’universo non aveva l’eco e non rimandò indietro niente.
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