INDIVIDENDO

“Non divida l'uomo quello che Dio ha congiunto.” (Marco 10, 2-16)

Individuo, etimologicamente, sta per ciò che non è possibile suddividere ulteriormente, che costituisce un'unità elementare nell'ambito della propria specie.

In perfetta opposizione alla nozione di individuo così definita si pone il concetto di dividendo, che rappresenta ciò che non solo si può, ma che anzi si deve suddividere, ossia frazionare affinché possa essere ripartito tra più soggetti. 1

Senza titolo - 2018

Giustapponendo individuo e dividendo, si ottiene il neologismo che dà il titolo a questo contributo.

Individendo è quindi ciò che, pur potendo essere separato, staccato come fosse una cedola dalla propria matrice, si stabilisce che debba rimanere intatto, inviolato nell'ambito della primigenia unitarietà in cui si inscrive.

E ciò anche nel caso, all'apparenza paradossale, in cui un dato soggetto si manifesti prepotentemente ai nostri sensi come un che di distinto. Anche in tal caso occorrerà infatti avere la lucidità per trascendere il dato sensoriale e riconoscere, con la forza della ragione, come esso rimanga profondamente indiviso nella propria essenza, come sia espressione di una sottostante trama unitaria e inscindibile.

Nel recente contributo dedicato al paradosso dei gemelli abbiamo visto quanto sia labile, specie alla luce delle attuali conoscenze in campo genetico, la consistenza dell'individuo: abbiamo infatti mostrato come a due persone all'apparenza distinte, i gemelli monozigoti, sottostà inequivocabilmente una ed una sola essenza.

Guardando all'essenza della persona con l'occhio della scienza contemporanea abbiamo quindi finito per riscoprire ciò che era già perfettamente chiaro al pensiero greco classico.

La condizione di somma precarietà del singolo era infatti ampiamente riconosciuta dalla sapienza greca, per cui era semplicemente impensabile il concetto moderno di individuo come monade, entità che costituisce un tutto autonomo e primigenio, che in quanto tale si oppone fieramente sia alla natura sia alla società umana, rispetto alle quali esso rimarca in ogni momento la propria irriducibilità.

Per il pensiero greco, infatti, la natura (la specie) e la società (la polis) sono sempre preordinati rispetto all'individuo, che viene non a caso generalmente designato come mortale, in maniera da tracciarne da subito, e a scanso di equivoci, il ristretto perimetro esistenziale.

Tale visione è perfettamente sintetizzata da Aristotele, allorquando egli definisce l'uomo come animale politico. Animale, quindi elemento da un lato del macrocosmo della physis, ma anche politico, ossia per sua natura cellula del microcosmo della polis, unico ambito in cui è consentito alla persona di realizzare il proprio progetto di vita umana: come rimarca il filosofo, solo i bruti e gli dei possono infatti pensare di poter vivere in maniera compiuta in una condizione di totale isolamento.

La concezione greca classica vede quindi la persona umana non come un individuo, ma esattamente come un individendo, ciò che in nessun modo deve essere separato dalla propria matrice, intesa sia come specie umana sia come polis, pena la totale perdita di senso e la condanna alla più profonda infelicità.

Non si trattava tuttavia di un concetto presente nel solo pensiero greco. Questo è infatti quanto, nel vangelo di Giovanni, sentiamo narrare da Gesù con la celebre parabola della vite e dei tralci:

"Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto perché senza di me non potete fare nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e poi secca."


Non credo che si possano immaginare parole in grado esprimere con maggior forza e risolutezza il concetto di individendo.

Se questa è la concezione, chiarissima e totalmente anti-individualistica, che emerge dal vangelo, è tuttavia necessario rimarcare fin da subito che la dottrina escatologica cristiana, così come verrà formulata dai padri della chiesa a partire da San Paolo, avrebbe in seguito virato decisamente in direzione dell'individuo. Facendo leva sulla resurrezione del Cristo, i fondatori della chiesa cattolica avrebbero infatti radunato un numero sempre più ampio di proseliti promettendo la resurrezione dai morti di tutti i fedeli meritevoli. In tal modo, legittimando le aspettative d'immortalità delle singole persone, essi stavano tuttavia implicitamente favorendo lo stratificarsi dell'humus su cui si sarebbe radicata la moderna idea dell'individuo, per come tuttora la conosciamo nella società occidentale.

All'affermazione di tale concezione contribuiranno in seguito, e in maniera definitiva, le Confessioni di Sant'Agostino, opera, secondo lo storico del cristianesimo Gaetano Lettieri, fondativa della letteratura occidentale, se non dell'intero pensiero moderno. Nelle Confessioni il cristiano si presenta infatti già come una persona che, dotata di una propria anima spirituale unica e inalienabile, si rapporta direttamente come individuo a Dio, confessore privato e giudice unico della propria condotta, traendo da tale intima relazione conforto alla propria soggettiva ambizione all'immortalità.

L'idea dell'esistenza di un'unità primigenia e inviolabile della comunità umana in Dio, evocata dalla vigna evangelica, non era ovviamente stata del tutto accantonata, rimanendo la stessa affidata alla chiesa universale, la Civitas Dei di Agostino, su cui finiva per gravare, tra gli altri, il compito di ricondurre ad unità i tragitti terreni dei singoli fedeli, le rispettive speranze, agendo da limite e freno rispetto alle pretese potenzialmente esorbitanti dell'individuo. Un ben arduo compito, tuttavia, dal momento che la chiesa stessa, per altro verso, rinfocolava le aspettative individuali, precisamente con la promessa di immortalità di cui si era fatta portatrice sin da subito.

Era un equilibrio precario - quello tra individuo e santa madre chiesa - e sarebbe stato definitivamente rovesciato a favore del primo in età moderna, quando, con la riforma luterana, la seconda venne destituita del proprio ruolo di intermediario tra il singolo credente e l'altissimo. Veniva, in tal modo, a cadere, assieme alla vigna apostolica, ogni residuo freno alle ambizioni dei singoli, cui si consentì di espandere progressivamente, e a dismisura, le propria pretese individuali, quelle che Dickens avrebbe per sempre impresso nella nostra memoria come le Grandi speranze.

Non sarebbero occorsi molti anni dopo la riforma prima che, a partire dalle nazioni in cui aveva maggiormente attecchito la nuova dottrina, l'individuo, così liberato, giungesse a dichiarare la morte stessa di Dio, come ultimo, e per molti versi ineludibile, corollario del crollo della chiesa universale di Roma. L'individuo, in tal modo liberato da ogni remora e forte della propria smisurata volontà di potenza, si sarebbe così definitivamente dichiarato signore assoluto e padrone incontrastato del mondo nella moderna società occidentale.

Come stupirsi allora, se eretta sulle fondamenta d'argilla dell'individuo, ossia su quelle di una sostanza dai connotati ontologici evanescenti, la cui costituzione ultima abbiamo visto poggiare sull'accidente piuttosto che sull'essenza, vediamo oggi la medesima società occidentale sprofondare in epoca post-moderna nel più profondo nichilismo, nella più totale assenza di senso.

Nel contesto odierno, dove nessuna delle grandi narrazioni del passato, ideologica, filosofica o religiosa che sia, viene più ritenuta credibile, resiste un unico dogma indiscusso e inattaccabile: la centralità dell'individuo.

In una civiltà che non è più cristiana, ma ne conserva l'impronta profonda, la promessa del successo terreno ha assunto oggi per l'individuo la stessa valenza che aveva in passato l'aspettativa della beatitudine dopo la morte. Non credendo più al paradiso ultraterreno, ci si aspetta di poter accedere a una condizione analoga già in questo mondo: hic et nunc.

E non è necessario che tutti abbiano concretamente successo; basta che uno su mille ce la faccia perché le ambizioni di tutti ne siano continuamente ravvivate.

Le grandi speranze individuali, per quanto Dickens stesso si fosse prodigato nel suo romanzo per sottolinearne l'intrinseca vacuità, rimangono quindi lo sfondo ultimo di ogni agire umano, sebbene si sia sempre più consapevoli del fatto che le possibilità concrete di successo sono, di per se, del tutto risicate.

Si assiste, di conseguenza, a un continuo sgomitare per farsi largo nella folla, calpestando senza alcun riguardo coloro cui capiti, perdendo l'equilibrio, di precipitare a terra.

Ma anche questi ultimi, gli sconfitti, non mettono in discussione il meccanismo complessivo, imputando alla sfortuna la loro condizione di insuccesso. Nel novero dei perdenti, sono poi del tutto incapaci di far sentire la propria voce le future generazioni, che si vedono sempre più depredate delle loro legittime prerogative dall'insostenibile sfruttamento delle risorse del pianeta posto in essere dagli individui attualmente in vita, nella loro folle rincorsa a un successo terreno che si misura solo con lo sperpero senza senso di risorse preziose e scarse.

Con l'individuo ho esordito sullo Zibaldino, chiedendo a Bruno di fornircene una prima ricognizione alla sua maniera. E auspicando la morte dell'individuo, e la simmetrica resurrezione dell'individendo, chiudo questa prima fase del mio percorso nel Blog.

Ho maturato nel frattempo la convinzione che questo in cui ci accade di vivere potrebbe essere davvero per noi il migliore dei mondi possibili, se solo avessimo la lucidità di riconoscere di essere solo una parte umilissima - quantunque, come tutte le altre, preziosa - di quel portentoso affresco cosmico che lo stesso Albert Einstein attribuiva allo "Spirito immensamente superiore che si rivela in quel poco che noi, con il nostro intelletto debole e transitorio, possiamo comprendere della realtà".



(1) Il termine dividendo viene dal lessico del diritto commerciale, dove indica la quota del profitto aziendale che l'assemblea delibera di distribuire a ciascuno dei soci al termine di ciascun esercizio annuale.

Commenti

  1. Wolters complimenti davvero. Un articolo così denso che sentivo distintamente gli ingranaggi neuronali scricchiolare mentre lo leggevo ��. In realtà, nelle questioni dottrinarie ci sono rimasto mio malgrado invischiato, essendo io principalmente interessato alla storia che i testi antichi raccontano e alla storia degli stessi testi. Iniziai a leggere il vecchio testamento sperando di trovarci delle risposte sulla condizione dell'uomo moderno, sul perché le società si siano organizzate nel modo in cui sono organizzate oggi, sul perché alcuni valori e alcuni ideali siano decaduti nel corso dei secoli ed altri invece abbiano prevalso, insomma speravo di trovare la radice del bene e del male. Alcune risposte forse le ho intraviste ma, come prevedibile, ho trovato soprattutto ulteriori domande. Quello che proponi è un punto di vista molto interessante ed assolutamente condivisibile. Sono rimasto colpito da un passaggio in particolare della tua riflessione, molto simile a certa esegesi ebraica, di alto livello peraltro, che individua la coincidenza del raggiungimento del successo nella vita terrena, in senso lato ma principalmente economico, con il ritorno al Gan Eden, visione perfettamente in linea con la concretezza del pensiero ebraico. D'altronde, visto che “polvere sei e polvere ritornerai”, meglio godersela fino a quando si può. Questa e molte altre cose nel Nuovo Testamento vengono di fatto ribaltate. In effetti si aveva bisogno di una promessa la più fidelizzante possibile, e cosa può esserci di meglio della resurrezione del corpo dopo la morte, in pratica la vita eterna? Guarda caso è proprio per impedire che Adamo ed Eva mangino anche dall’albero della vita eterna (a quanto pare i frutti proibiti erano due, almeno) che vengono scacciati dall’Eden dai loro creatori: per impedirgli di diventare come loro. Anzi, dopo averli scacciati potenziano anche le misure di sicurezza all’accesso di quell’albero, quindi era proprio una cosa che mai sarebbe dovuta accadere. Poi, dopo una manciata di secoli, arriva un rabbi che si professa figlio di Dio e la offre a tutti nel nome di Dio stesso! Di fatto sembrerebbe legittimo sentirsi onnipotenti, indistruttibili, e senza alcuna necessità di sentirsi appartenenti ad un gruppo, ad una comunità, ad un UNO. Legittimo sentirsi padroni del “creato” e pensare alla Natura come sistema posto al proprio servizio invece che matrice di appartenenza. Quello che penso è che seppure, grazie ad Eva, abbiamo conosciuto il bene e il male, non abbiamo capito bene la differenza.

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