IL SENSO DEL LIMITE

Quante volte sentiamo lamentare, con toni allarmati, il fatto che si sia ormai perso ogni senso del senso del limite?

Non c'è più limite all'accumulo delle ricchezze da parte dei potenti, come non ce n'è allo sfruttamento indiscriminato delle risorse del pianeta da parte dell'uomo, al dominio della tecnica sull'essere umano e via discorrendo.

Il concetto di limite (e quello strettamente correlato di misura) era invece, come noto, un caposaldo del pensiero greco classico. E infatti al limite (Peras) è dedicata una specifica voce di quell'antesignano dei dizionari filosofici che è il V libro della Metafisica di Aristotele, che riporto qui di seguito nella traduzione di Giovanni Reale.



«Limite è detto il termine estremo di ciascuna cosa, vale a dire quel termine primo al di là del quale non si può più trovare nulla della cosa e al di qua del quale c'è tutta la cosa.
Limite è detto la forma, qualsiasi essa sia, di una grandezza e di ciò che ha grandezza.
Limite è detto il fine di ciascuna cosa (e tale è il punto di arrivo del movimento e delle azioni e non il punto di partenza; talora si dicono limite ambedue: e il punto di partenza e il punto d'arrivo o lo scopo).
Limite è detta anche la sostanza e l'essenza di ciascuna cosa: questa è, infatti, limite della conoscenza; e se è limite della conoscenza lo è anche della cosa.»

Nel primo capoverso vediamo quindi come Aristotele esponga il concetto, a noi più familiare, di limite come confine.

Subito dopo però ci viene detto che è esattamente il confine tracciato dal limite a dare forma e figura alle cose, a renderle quindi quello che sono.

Ma quale forma? Quella accidentale che cambia di minuto in minuto o la forma sostanziale, l'essenza? Il quarto capoverso sembra proprio indirizzarci in questa seconda direzione. Se è quindi la forma sostanziale il limite di ciascun ente, allora si comprende bene come, nel terzo capoverso, il limite venga posto anche come il fine, lo scopo ultimo, a cui tendono tutti gli enti, e in particolare gli esseri animati, che hanno in se stessi la causa del movimento.

Il limite non è quindi una barriera da abbattere, un ostacolo che si frappone fra la persona e la sua felicità e che quindi deve essere quanto prima scavalcato. Tutto il contrario: il limite determina la possibilità stessa dell'esistenza della felicità: è felice chi sa stare in maniera virtuosa (ossia secondo eccellenza), nei propri confini, che sono quelli della propria essenza, ossia della propria specie.

Quanto prima ci riappropriamo di tale concetto fruttuoso di limite, mettendo da parte le assurde pretese di sconfinata volontà di potenza individuale di cui si è finora alimentata la moderna cultura occidentale, tanto meglio sarà per tutti.

Commenti

  1. Vincenzo: Comunque, il concetto di limite esiste anche nell’accezione epistemologie di insufficienza attuale di comprensione che può essere però superata.

    Interessante a questo proposito è il teorema di incompletezza di Goedel che dimostra che ogni sistema di rappresentazione non banale (cioè capace almeno di rappresentare l’aritmetica dei numeri interi) sia o incompleto o incorretto. Tradotto in termini più semplici: il sapere umano è limitato. Però ciò non vuol dire che lo sia per sempre: quando una verità, che non si può dimostrare all’interno del sistema, viene verificata (con altri mezzi) o assunta per scelta (atto di fede), l’incompletezza si risolve al meta-livello cognitivo e si può dunque andare avanti oltre i limiti precedenti.

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  2. Valter: Caro Vincenzo, eccomi qua con una replica, come promesso. Per iniziare volevo precisare che il concetto di limite a cui intendevo riferirmi è di tipo ontologico e non gnoseologico. Si tratta in sostanza di riconoscere che esiste un limite al proprio essere, cercando quindi di capire quali sono gli spazi di azione di cui effettivamente si dispone. Dio è onnipotente, gli uomini no, su questo penso che possiamo tutti concordare. Ciò non vuol dire che siamo del tutto im-potenti. Essere consci dei propri limiti vuol dire esattamente sforzarsi di capire qual è lo spazio delle proprie potenzialità. Equivale al famoso "conosci te stesso" dei greci. Non è un esercizio semplice, com'è del tutto evidente; ma ignorarlo significa condannarsi alla perenne frustrazione, che rapidamente degenera in nichilismo, come nel caso della volpe con l'uva nella favola di Esopo: non riesco a raggiungerla è quindi non vale nulla. E’ vero che i limiti delle potenzialità della persona sono in qualche misura anche storicamente determinati: dalle istituzioni sociali in cui l'individuo è inserito, dalle tecnologie, dalle ideologie, ma questo non cambia il senso del discorso: conoscere se stessi è sempre un conoscersi nel mondo, non in astratto. A questo punto ci sarebbe anche da ragionare su quali siano i limiti che l'uomo fronteggia in aggregato come specie, piuttosto che individuo. Me ne sono in qualche misura occupato in questo post sullo Zibaldino (http://www.aielli.org/.../il-migliore-dei-mondi-possibili...), a cui ti rimanderei (bontà tua!). Ti anticipo solo che al riguardo ho trovato illuminante la lettura del romanzo ‘La fine dell’eternità’ di Asimov; quindi, nel caso l’avessi letto, sai già dov’è che sono andato a parare.
    Veniamo infine quindi alla gnoseologia. Conosco a grandi linee il teorema di incompletezza di Godel (secondo Odifreddi a un risultato simile pare che fosse addirittura arrivato Aristotele). Molti citano anche il principio di indeterminazione di Heisenberg nel novero dei limiti alla conoscenza umana.
    Se guardiamo tuttavia alla scienza moderna nel suo insieme, vediamo che essa funziona esattamente ancora come la strutturò Aristotele: assiomatico-deduttiva. Come ben sai, però, gli assiomi non sono dimostrabili e sono assunti solo perché generalmente ritenuti "evidenti". In alcuni casi vengono addirittura posti come assiomi teoremi che i matematici non sono riusciti a dimostrare (l’assioma della scelta mi pare che sia uno di questi). E' meno noto che anche gli stessi principi logici con cui si fanno le dimostrazioni (ad es. il principio di identità o non contraddizione, quello del terzo escluso, il principio di induzione matematica) sono anch’essi del tutto indimostrabili e pure questi debbono essere presi per veri "sulla parola". Risultato: la conoscenza scientifica intera è puramente convenzionale e non attiene mai nessuna verità assoluta. Altro che limitata!
    La scienza moderna si illude tuttavia di sapere perché, con il “braccio armato” della tecnica, è in grado di fare. Ma il fatto che con la tecnica si riesca a “fare” le cose, non vuol mica dire che le si “conosca”. Già nell’età del bronzo gli uomini erano perfettamente in grado di fondere leghe metalliche anche senza conoscere la tavola periodica degli elementi.
    Sul tema della conoscenza io mi sento oggi attratto piuttosto da posizioni addirittura platoniche: l'uomo, quando e se conosce qualcosa veramente, è perché lo ri-conosce, o come avrebbe detto Platone, perché l'anima se lo ricorda. L'unica conoscenza profonda attingibile all'uomo, se mai ne ha una, è quindi quella che ha la sostanza della sostanza stessa o di altra sostanza ad essa consustanziale: la conoscenza che ha il feto della madre e la madre del feto, la conoscenza che hanno di se quelli che sono due ma allo stesso tempo uno.
    Tutto il resto sono convenzioni, utili quanto si vuole, per carità, ma quello sono.

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  3. Vincenzo (contro replica): Tutto ok. Un solo appunto. La verità e la dimostrabilità non sono la stessa cosa. Anzi, il teorema di Goedel “dimostra” proprio questo: la sostanziale differenza tra sintassi e semantica. La verità semantica dipende da come si definisce il significato. E il significato è negoziabile. Ci si mette d’accordo sul significato e dunque sulla verità. Poi uno può credere in quello che vuole e postulare quello che vuole (rischiando di essere emarginato come “eretico”)... Associare la verità alla percezione è limitativo dal momento che la percezione è limitata. Tutto questo per dire che la verità assoluta non esiste. Siamo noi che decidiamo (soggettivamente o collettivamente) quello che ci sembra vero... e formuliamo assiomi e principi (che strutturano il ragionamento e dunque la capacità di dimostrare). La correttezza e la completezza sono concetti matematici ovvero relazioni tra dimostrazioni e verità (prestabilite e non assolute). Niente di più.

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  4. Federico: Quindi realizzare la nostra essenza è vivere nel limite? ...bello questo scritto, affascinante, ma la valenza essendo filosofia è soprattutto nella necessità logica che si intravede e si cerca di raggiungere. Detto questo in certi passaggi lo trovo nebuloso. Riprende però certe mie idee e vorrei capire se si può connettere con esse. A un certo punto si parla di essenze. La mia idea è che alla base dell'uomo ci siano essenze positive da proteggere e esortare. Il limite sarebbe vivere per il loro limite? Ma come appagarsi in un limite? Il filosofo oltretutto non è colui che vuole spingere sempre oltre i suoi limiti comprensivi, scrutativi? (e direi anche percettivi sensibili dato che la conoscenza deriva anche e soprattutto da queste).

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  5. Valter (replica a Federico): Il concetto di essenza non è certamente uno dei più agevoli in Aristotele. In generale possiamo dire che essa rappresenti l'identità profonda di ciascuna cosa o persona, ciò che quindi non è accidentale o contingente. Se questa identità profonda caratterizza, in potenza, la persona sin dalla nascita, non è tuttavia detto che essa si esplichi concretamente in atto. Provo a fare un'esempio: tu puoi avere per essenza un talento innato come pittore e nessun talento per la musica. Il talento di cui disponi da un lato ti limita, ti pone dei confini (ti impedisce di essere un misicista compiuto). Dall'altro, avere il talento per la pitura fa di te un potenziale pittore di successo. La tua felicità, una volta individuati i limiti posti dalla tua essenza, starà nel raggiungere il tuo fine, ossia passare dalla potenza all'atto nel tuo campo di elezione, esercitandoti quindi in concreto nella pittura e facendolo in maniera virtuosa, ossia secondo eccellenza (aretè). Se si ignorano invece i propri limiti si rischia, nell'inidirzzare la propria azione, di peccare per eccesso (sopravvaluto le mie potenzialità in certi campi) ma anche per difetto di confidenza (le sottovaluto nel mio campo di elezione). Alla fine vediamo quindi riemegere una delle massime più note dell'antica sapienza greca: "conosci te stesso" (e agisci di conseguenza).

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  6. Federico (contro replica): grazie per la spiegazione. E' un concetto piuttosto semplice. Nel mio pensiero pero' queste non sono essenze. L'esempio che lei pone fa a mio avviso riferimento a cio' che chiamerei indole. L'essenza in se' dovrebbe essere un principio che caratterizza l'uomo, un germoglio unanime, che certo puo' venir piu' o meno sviluppato. Emerson diceva "siamo contenitori di principi" questi appunto sono cio' che chiamo essenze, ma non come principi soggettivi, quanto come virgulti che caratterizzano le disposizioni dell'uomo e tale lo rendono caratterizzandolo. Kant per esempio faceva leva sulla dote della razionalita'.

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  7. Valter (replica al secondo commento di Federico): temevo di stare semplificando un po' troppo; vedo se mi riesce di rimediare almeno in parte. L'essenza in Aristotele credo sia molto vicino, come concetto, a quello che lei chiama "disposizioni dell'uomo". Essenza delle sostanze è la forma sostanziale, che coincide con l'anima nel caso delle sostanze viventi. Quest'ultima, come noto, nell'uomo ha tre componenti: vegetativa, sensitiva e intellettiva/razionale, e quella tipica della specie umana è ovviamente la terza. L'attività razionale però non comprende solo la sophia (che ne rappresenta indubbiamente l'espressione più elevata). Sono "abiti" (exis) della ragione umana (virtù dianoetiche) anche le arti poietiche (fra cui la musica e la pittura dell'esempio) e quelle pratiche. In tutti e tre i campi (poietico, pratico e teoretico) l'attività della persona potrà poi esplicarsi in maniera più o meno virtuosa, ossia più meno eccellente. Con il discorso dei "talenti" intendevo riferirmi agli "abiti" di cui parla Aristotele; ma concordo che l'interpretazione di questi ultimi come principi soggettivi esuli effettivamente dal contesto. Era scritto giusto nel post: l'essenza è quella della specie. Questa, nel caso dell'uomo, si esprime anche attraverso una serie di abiti razionali, che sono però pertinenti alla specie, non al singolo individuo.
    Un esempio molto più calzante lo devo all'amico Bruno, che commentando questo stesso post in altra sede, ha ponsto in luce l'analogia esistente con la celeberrima favola del rospo e del bue di Esopo: il rospo che prende a gonfiarsi sempre di più provando a imitare il bue, incontra infatti ben presto, e con gli esiti catastrofici che conosciamo, i limiti della propria essenza, ossia della propria specie, che è quella di rospo e non di bue.

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  8. Cari Valter, Vincenzo e Federico, questo è quello che mi auguravo avvenisse con il mio ed ora nostro Zibaldino. Una pluralità di voci e di interventi, per il piacere di parlare di cose che ci stanno a cuore. Volando alto come fate voi, il blog cresce ed io ne sono contento. Grazie a tutti.

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