IL PARADOSSO DEI GEMELLI

IL PARADOSSO DEI GEMELLI

Nella fisica moderna ha acquisito  una certa celebrità, anche tra i non addetti ai lavori, un (apparente) paradosso della teoria della relatività, che vede coinvolti due gemelli,  uno dei quali rimane fermo sulla Terra, mentre l'altro viene spedito in viaggio tra le stelle a una velocità prossima a quella della luce.

Ebbene, nulla di tutto ciò. Il paradosso cui intendo riferirmi, pur riguardando i gemelli, non inerisce affatto al movimento, e meno che mai alla navigazione intergalattica, ma riguarda anzi esattamente ciò  che è perfettamente immobile, che è per sua natura immutabile: l'essenza delle cose e delle persone.

Ne abbiamo ormai disquisito a lungo. Abbiamo visto, parlando di fiumi e scarafaggi, che l'essenza è ciò che consente di ricondurre ad unità il continuo divenire degli enti, permettendo di risolverne le aporie,  evidenziate già nell'antichità da filosofi come Eraclito e Cratilo, senza dover ricorrere ad alcuna forzatura logica, ossia senza violare il principio di non contraddizione.

Affermare che è possibile bagnarsi due volte nello stesso fiume non è infatti contraddittorio, una volta che si sia correttamente precisato il significato da attribuire all'aggettivo "stesso", che non deve essere inteso come perfettamente identico in ogni minimo e trascurabile particolare, bensì come ciò che conserva immutata la propria definizione, ciò che non ha quindi natura accidentale e contingente.

A fianco di quello del divenire, un altro classico problema affrontato dalla filosofia greca riguarda  l'occorrenza della molteplicità - ovvero se esista al mondo più di un solo ente o se, al contrario, come sostenevano gli eleati,  un'unica sostanza non assommi in se tutto l'essere del mondo.

Il paradosso dei gemelli cui intendo riferirmi inerisce esattamente a tale problematica: ciò che all'apparenza si presenta come molteplice, ma che a una disamina meno superficiale mostra invece una natura intrinsecamente unitaria.

            
                                              I gemelli Maurizio e Giorgio Damilano 

Se i tratti somatici della persona sono, come sappiamo, determinati dal codice del DNA individuale, in che misura lo sono anche i connotati psicologici, il carattere, le predisposizioni, l'indole profonda, ciò che abbiamo concordato rappresenti l’essenza, l'anima, della persona?
Nel porre tale domanda, giorni addietro, avevo evocato il fatto che la risposta sarebbe potuta arrivare dai gemelli monozigoti, che rappresentano un sorprendente caso di clonazione spontanea che la natura pone davanti ai nostri occhi. 
Dopo alcuni giorni di ricerche sul web, ho trovato, in una sintetica e brillante relazione (1) tenuta dalla dottoressa Nancy Segal, ricercatrice della University of Minnesota e coautrice del noto Minnesota Study of Twins Reared Apart (Studio sui gemelli allevati separatamente), conferma di quello che per me era ormai più di un sospetto. 
Le numerose ricerche condotte nel tempo su coppie di gemelli monozigoti (ossia con lo stesso DNA) ed eterozigoti (con DNA simile ma non uguale) mostrano infatti inequivocabilmente che le affinità nei comportamenti e nella psicologia dei due gemelli sono decisamente più marcate nel primo caso. Anche gemelli monozigoti separati alla nascita, cresciuti in città o addirittura nazioni diverse, mostrano, quando li si ponga a confronto, similitudini sbalorditive nel carattere, nelle inclinazioni, nelle aspirazioni. 

E' quindi ormai possibile affermare con una certa confidenza che i gemelli monozigoti sono sì due persone, ma una sola essenza. Ecco quindi svelato il paradosso: "e pluribus unum", come potremmo dire mutuando dal motto nazionale degli Stati Uniti d'America.

Tale situazione, all'apparenza paradossale, deriva dal fatto che i gemelli monozigoti hanno lo stesso identico DNA, condizione che fa si che essi siano essenzialmente la stessa persona, a meno di attributi meramente accidentali che sono il portato delle diverse circostanze ambientali fronteggiate dai singoli gemelli nel corso della loro vita.

Non tutti gli individui umani sarebbero quindi, proprio così unici e irripetibili come normalmente si pensa. Nel caso dei gemelli monozigoti, la natura singolare dell'individuo riposa infatti non sull'essenza, ma sul mero ricorrere di fattori accidentali.

Poco male, si dirà; si tratta infatti di situazioni che, per quanto paradossali, riguardano un numero di casi assai circoscritto, che possono essere assimilati a una specie di incidente di percorso in cui sarebbe in qualche misura incappata la natura. Ma siamo proprio sicuri che tale situazione paradossale sia confinata al solo caso dei gemelli monozigoti?

Se, come abbiamo sopra constatato,  due individui che hanno esattamente lo stesso codice genetico avranno di necessità la medesima essenza, ciò non impone che debba essere di necessità vera anche l'implicazione di segno opposto, ossia che a essenze uguali debbano in ogni caso corrispondere sequenze del DNA interamente uguali.
E' infatti plausibile che non tutti i geni siano rilevanti nel determinare l'essenza delle persone. Come sappiamo, esistono geni che dettano unicamente caratteristiche accessorie, come il colore dei capelli e degli occhi, nulla che abbia quindi a che fare con l'essenza profonda delle persone.
Di conseguenza, è possibile pensare che due persone possano avere la stessa essenza anche se non condividono per intero il codice genetico, essendo sufficiente che esse abbiano in comune solo la parte del DNA che è strettamente implicata nel determinare l'essenza, mentre potrebbero differire le porzioni del genoma che impattano solo su attributi non essenziali della persona.

Ciò allarga enormemente il campo della possibile riduzione della molteplicità all'uno. Genitori e figli, fratelli e sorelle hanno infatti tutti una larga parte del genoma in comune tra di loro. Ma anche nonni e nipoti, o cugini e cugine possono avere tratti genetici assai simili.
D'altronde, quante volte abbiamo sentito pronunciare o usato noi stessi l'espressione: "è tutto suo padre (o sua madre)"?

Il nostro Bruno, nel tracciare da par suo il ritratto delle persone che compongono la discendenza della propria famiglia,  come avrebbe fatto qualsiasi provetto narratore, ha mirato a porre bene in luce le peculiarità dei singoli caratteri, la varietà delle indoli e degli atteggiamenti.
Oggi, alla luce delle considerazioni che siamo andati svolgendo, mi verrebbe piuttosto da chiedergli se, al contrario, tornando a scorrere nuovamente il proprio albero genealogico, non sarebbe piuttosto possibile tentare di far emergere esempi di personalità tra di loro affini. Gli chiederei inoltre di ponderare se, nella generale eterogeneità delle personalità considerate, non si riscontri un grado di comunanza d'animo maggiore tra consanguinei, rispetto a quello che si osserva nei congiunti acquisiti in conseguenza dei soli legami matrimoniali.

Per Aristotele l'anima costituisce la forma, ossia l'essenza, della persona umana. L'anima, informando la materia, è causa prima dell'esistenza dell'individuo vivente, ma non coincide con l'individuo.
Il filosofo di Stagira, il primo a prendere realmente sul serio lo studio della natura, aveva anche intuito che la forma - oggi diremmo il DNA - passa dai genitori ai figli, anche se secondo lui a tale trasmissione avrebbe contribuito solo il padre (una delle sue rarissime "sviste", anche se abbastanza madornale ai nostri occhi e forse pure venata di un certo sessismo, peraltro assai comune all'epoca).
Tuttavia, l'intuizione di fondo era corretta.
Ma se la forma/essenza/anima della persona passa immutata di padre in figlio, in che senso essi costituiscono due entità distinte?  Solo per la materia su cui si imprime tale forma, evidentemente (nel medioevo, la filosofia scolastica avrebbe infatti parlato della materia come "principium individuationis").
Per Aristotele quindi padre e figlio sono la stessa anima in due corpi differenti, esattamente quanto era sopra emerso nel caso dei gemelli monozigoti. E se sono ancora in vita nonno e bisnonno, saranno ben quattro le persone che posseggono contemporaneamente la medesima anima/forma. Alla faccia, dell'individuo!

Anche altri filosofi greci, come Socrate e Platone, quando hanno teorizzato sull'anima non lo hanno fatto trattandola come un'entità abbinata in maniera biunivoca all'individuo: una persona,  un'anima.
Tutt'altro. Per Platone, i mortali sono solo "abitati" da un'anima, che è loro solamente per il periodo in cui essi sono in vita. Alla morte l'anima li abbandona per reincarnarsi in un altro corpo. Anche in questo caso è quindi solo la mate
ria, il corpo, a far si che si possa parlare di individui diversi nell'avvicendarsi delle generazioni. Le anime sono sempre le stesse.
La concezione aristotelica e quella platonica, che pure differiscono profondamente riguardo la caratterizzazione dell'anima (realtà immanente per il primo e trascendente per il secondo), hanno quindi implicazioni del tutto analoghe per il concetto di individuo. In entrambi i casi quest'ultimo si riduce a ben poca cosa, a una specie di simulacro, il custode temporaneo di un'essenza che non gli appartiene, di cui è solo momentaneamente titolare, in condominio con le generazioni che lo hanno preceduto e che a lui seguiranno.

L'individuo, per come lo concepiamo oggi, ossia come entità unica e irripetibile, non era quindi un concetto posseduto dal pensiero greco.
Tale concezione, a noi oggi così familiare, si è sedimentata nel corso dei secoli nell'ambito della dottrina cristiana, e la vediamo infatti mirabilmente rappresentata in capolavori come le Confessioni di Agostino o la Divina Commedia. Secondo tale dottrina, l'individuo non solo è unico sulla Terra, ma conserva la sua irripetibile unicità anche nell'aldilà. Nemmeno la morte sarebbe quindi in grado di dissolvere l'individuo. Una concezione, come si vede, esattamente agli antipodi rispetto a quella tramandata dal pensiero greco classico.

Sarà un caso, ma tale idea dell'individuo unico e irripetibile è passata pari pari nella laicissima scienza moderna. Anzi, con la scoperta del codice genetico della persona, la concezione cristiana dell'individuo ha trovato modo di radicarsi ulteriormente, sulla base dell'assunto che non esistono due persone che condividano esattamente la stessa sequenza del DNA.

Si è tuttavia scoperto in seguito che questo non corrisponde al vero: i gemelli monozigoti hanno infatti esattamente lo stesso codice genetico. La crepa nel muro dell'idea corrente di individuo, a questo punto del tutto evidente su basi scientifiche pressoché inattaccabili, non è stata tuttavia di entità tale da scalfire la concezione millenaria dell'individuo sedimentatasi nell'occidente cristiano. Anche perché nel frattempo quest'ultimo, nell'inedita veste di consumatore/imprenditore, era divenuto chiave di volta dell'intera società capitalistica moderna.

Ma che cos'è quindi, in fin dei conti, l'individuo? Uno, come ci insegnano Dante e Agostino, nessuno, come direbbero i filosofi greci, o centomila, come sosteneva Pirandello?

Siamo ormai, al termine di un percorso abbastanza lungo e articolato, credo in grado di poter iniziare a trarre qualche conclusione. Ma questo nella prossima, e ultima, puntata.


(1) La relazione è disponibile su YouTube al link: 
https://www.youtube.com/watch?v=c2__1Jrcpv4&fbclid=IwAR0sNNoGuc_M5d6TbM-10GP_Vxfr9keuGyKqTYK1LaPLMaMTFUNAwwmsveU
















Commenti

  1. Debbo dire che questo Zibaldino ha preso il volo, da quando è intervenuto il nostro amico Valter a darci una mano. I suoi scritti sono ammirevoli e non possiamo non complimentarci ancora una volta con lui per il presente, notevole contributo.
    La sua letttura mi ha richiamato alla mente uno dei primi film visti da me quando ero ragazzo, di cui non ricordo il titolo, il cui contenuto mi imressionò non poco. In questo film, il tema dei gemelli in generale (non credo che si ponesse il problema della distinzione tra monozigoti ed eterozigoti), era portato alle estreme conseguenze: il caso era quello di due gemelli che vivono lontano uno dall'altro, che hanno le stesse sensazioni fisiche provate da uno solo di loro, nello stesso momento. Così era nelle sensazioni di piacere, come anche nel dolore. Memorabile per me allora, una scena madre in cui uno dei due è sottoposto a tortura e viene fustigato. Da un'altra parte del mondo, il gemello, del tutto ignaro di quello che stesse accadendo al fratello, si torceva dal dolore, ad ogni colpo di frusta, nello stesso identico modo di quello sottosto a tale trattamento. Certo una banalizzazione di quanto detto sopra da Valter.

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    1. Caro Bruno, esempio tutt'altro che banale! Ancora una volta la tua sensibilità e cultura ci aiutano a gettare luce su aspetti assai intriganti e centrali (come il caso della clonazione) delle questioni di cui andiamo discorrendo. Qui rimaniamo sempre in ambito scientifico (ma ai limiti con la fantascienza). Il fenomeno paranormale che hai evocato è infatti parente prossimo dell'interlacciamento (entanglement) quantistico, un fenomeno invece ormai definitivamente acclarato dagli studiosi di fisica delle particelle. Si parla di interlacciamento due elettroni (o paarticelle simili), che hanno, diciamo, ricevuto uno stesso imprinting iniziale, reagiscono in seguito in maniera identica di fronte a uno stesso stimolo anche se posti a milioni di anni luce di distanza l'uno dall'altro. Certo, dagli elettroni alle persone il passo è lungo, ma la direzione è quella.

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