L'ELICA DELLA VITA

Nel chiudere le precedenti elucubrazioni sulla forma dell’acqua, ci eravamo chiesti in che misura una simile identità di forma, formula ed essenza si potesse riscontrare nel caso di altri e ben più articolati composti, le sostanze animate, gli esseri viventi.

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Su questo punto, è ormai universalmente noto come, tra le mille molecole e composti chimici che si agitano e si avviluppano all’interno di in un corpo vivente, ve ne sia una che svetta tra le altre, essendo in qualche misura, come direbbe Aristotele, la causa prima di tutte le rimanenti. Si tratta ovviamente della molecola del DNA, la cui struttura fu scoperta nel 1953 da James Watson e Francis Crick, in quella che rimane una delle più grandi conquiste dell’intelletto umano.

Il DNA, essendo una molecola, ha ovviamente a sua bella formula come tutte le altre, ed ha anche la sua forma, la famosa doppia elica, che di recente citava anche il nostro Bruno, paragonandone la forma a quella del Pozzo di San Patrizio a Orvieto.

Resta da assodare, a questo punto, in che misura sia possibile affermare che la formula del DNA catturi, come nel caso delle sostanze chimiche inorganiche, anche l’essenza di un dato essere vivente. Vediamone quindi innanzitutto le caratteristiche.

Il codice del DNA è immobile, ossia non muta nel corso della vita. Anzi non muta nemmeno dopo la morte, a patto di rimanere conservato nel nucleo di una qualche cellula rimasta congelata o incapsulata in reperti fossili (il film Jurassic Park, come ricorderete, speculava proprio sull’immutabilità nel tempo del codice genetico per ipotizzare che gli scienziati sarebbero stati in grado riportare in vita dinosauri estinti dal milioni di anni). Essendo una formula - nello specifico un lunghissimo codice binario in cui si alternano coppie di basi chimiche tra di loro legate secondo uno schema predefinito - il DNA è poi del tutto immateriale, e quindi eterno. Ma il fatto che sia immobile e immateriale è sufficiente a far si che la formula del DNA rappresenti anche la forma immutabile, ossia l’essenza, di un dato essere vivente?

Proviamo a rispondere partendo dal caso più semplice, quello degli organismi unicellulari, quali batteri o virus, creature in grado di riprodursi semplicemente duplicandosi, o clonandosi da se, se vogliamo. In questo caso direi che ci siano pochi dubbi sul fatto che il codice genetico definisca univocamente l’essenza di tali esseri viventi. La cellula madre e quella figlia sono infatti identiche (se trascuriamo per il momento il caso di mutazioni genetiche casuali avvenute nel momento della duplicazione), a meno di aspetti del tutto accidentali: potranno esserci infatti delle microscopiche differenze di forma o peso, scaturenti da circostanze contingenti, tipo l’abbondanza o meno di nutrienti nell’ambiente. Ma queste hanno appunto natura accidentale e non toccano l’essenza di tali, basilari, esseri viventi .

Non solo virus e batteri, tuttavia, ma anche alcune piante sono in grado di duplicarsi, sebbene in maniera del tutto differente. Esse sono infatti talvolta in grado di rigenerare l’intero organismo, incluse le radici, a partire da un singolo rametto che venga strappato dall’albero o dall’arbusto e reinserito nel terreno. Di tale capacità si avvalgono, come noto, da tempo immemore gli uomini, al fine di moltiplicare gli esemplari di una data pianta con la tecnica della talea, che può quindi essere vista come una sorta di procedura antesignana delle moderne pratiche di clonazione degli organismi viventi. Ora, se stacchiamo un rametto da un arbusto di rosmarino e lo ripiantiamo, la pianta che ne otterremo avrà esattamente lo stesso codice genetico di quella di partenza e differirà dall’arbusto originario solo per caratteristiche accidentali, quali l’altezza, il volume, la sfumatura di colore. Anche per il rosmarino non sembra quindi che ci possano essere dubbi: il genoma fornisce l’essenza della pianta, ne dà la definizione.

A questo punto sarebbe arrivato il momento di parlare degli animali, ma facciamo direttamente un salto acrobatico e chiediamoci direttamente che cosa rappresenti il DNA nel caso dell’individuo umano. Esso definisce, come sappiamo, gran parte delle caratteristiche esteriori della persona: la forma del naso e delle orecchie, il colore degli occhi e quello dei capelli, la predisposizione nei confronti di malattie specifiche o, al contrario, l’immunità rispetto ad altre. Ma il codice genetico è sufficiente a definire l’essenza dell’individuo umano, che plausibilmente attiene alla mente piuttosto che al corpo? Si tratta, emblematicamente, dello stesso interrogativo che si poneva il protagonista di Uno, nessuno e centomila:

"Per gli altri che guardano da fuori, le mie idee, i miei senti­menti hanno un naso. Il mio naso. E hanno un pajo d’occhi, i miei occhi, ch’io non vedo e ch’essi vedono. Che relazione c’è tra le mie idee e il mio naso?"

Appunto che relazione c’è tra mente e naso, tra pensieri e moti dell’animo e il corpo? Se la forma del naso, come sappiamo, è sicuramente determinata dal DNA, in che misura lo sono anche le idee, ossia l’indole, il genio, il daimon della persona, ciò che abbiamo concordato ne rappresenti l’essenza profonda?

Per rispondere al quesito Pirandelliano ci vorrebbe nientemeno che un bell’esperimento di clonazione umana. Si prende un individuo, se ne fanno un certo numero di copie e le si osservano nel corso del tempo per vedere come la pensano, come si comportano, che persone sono, insomma. Ovviamente ciò è impensabile da fare in laboratorio, a causa di problemi etici che al momento appaiono insormontabili. Ma non è impossibile per madre natura, che evidentemente si fa meno scrupoli. Quest’ultima, nella sua insondabile provvidenza, ci pone infatti davanti agli occhi il caso più sbalorditivo di generazione spontanea di cloni umani: i gemelli monozigoti. Questi ultimi si producono accidentalmente allorché, a un certo punto del processo di duplicazione della stessa cellula uovo fecondata, dall’embrione si separano due tronconi, che poi si sviluppano autonomamente. In tal modo si generano quindi due individui che, a differenza dei gemelli eterozigoti, hanno esattamente lo stesso codice del DNA.

Possiamo quindi affermare che i gemelli monozigoti hanno la stessa essenza? Differiscono gli stessi solo per caratteristiche accidentali? Su questo punto, in tutta evidenza cruciale, si richiedono approfondimenti ulteriori, e toccherà quindi tornarci nel seguito. Al momento, la sensazione è che per la costellazione dei gemelli passi lo snodo ultimo della nostra ricerca che, si parva licet, mi pare seguire infine un tragitto simile a quello dell’odissea astrale narrata da Stanley Kubrick, una ricerca delle radici e dei destini ultimi dell’individuo umano nell’universo.

Commenti

  1. La chiarezza è la caratteristica principale degli scritti di Valter. Il rigore e la consequenzialità delle argomentazioni ne rendono la lettura facile, anche se in salita costante, ogni concetto ci porta un gradino più in alto e la conclusione, sempre puntuale, rimane comunque aperta a nuove rivelazioni.

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  2. Grazie tante, Bruno. E' un onore e un piacere poter condividere qui queste riflessioni. Ti sono debitore dello spunto che mi ha portato ad approfondire le tematiche legate alla clonazione, argomento che, come ricorderai, ponesti all'attenzione, con mia grande sorpresa (confesso che non ci avevo proprio pensato), proprio nel dare avvio alla speculazione sul tema dell'individuo con la voce omonima dello Zibaldino.

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