ISOLA DEI FANTASMI

"Dopo tre ore di navigazione, avvistammo sulla superficie piatta del mare, lungo la linea dell’orizzonte, una piccola macchia sfocata che poco alla volta prendeva forma di terra, confusa nella foschia del mattino. Il cuore si stringeva in un’angoscia crescente, l’ansia di scoprire quella che sarebbe stata per noi la residenza stabile, per molto, troppo tempo. Eravamo in dieci, incatenati due per due e tenuti insieme da una catena che ci univa tutti. Guardavamo verso quella macchia che via via prendeva le sembianze di un’isola che si ergeva dall’acqua con la sua forma tozza, scabrosa, tutta rocce alla base e vegetazione selvaggia più in alto, con l’animo devastato sotto la suola delle scarpe.


La nostra imbarcazione entrò in una baia dall’aspetto ridente, ma sull’Isola gravava una nube nera che ci toglieva ogni speranza. Dietro un piccolo promontorio, un porticciolo. Le operazioni di attracco richiesero qualche tempo, durante il quale i nostri pensieri si persero in una calma senza aspettative, solo attesa passiva nel buio delle nostre coscienze desolate. Fummo fatti scendere sul molo, in fila, lungo la passerella, con le catene tintinnanti, pochi curiosi a guardarci e molte guardie intorno. Piccola sosta in gruppo, scambio di saluti fra guardie del molo e guardie appena sbarcate, poi tutti ci avviammo su una strada che dal porto andava verso l’interno. Così conoscemmo Porto Vecchio, da cui una strada portava all’ultimo dei numerosi distaccamenti del carcere, chiamato della Mortola.


Per farmi coraggio, pensavo agli uomini famosi che sono stati incarcerati in un’isola. Loro hanno vissuto questa stessa mia esperienza, provato la stessa angoscia. Mi consolo: io sono un povero ladro, rubo per necessità, ma penso a Napoleone all’Elba e poi a S. Elena, a Sandro Pertini, prigioniero politico detenuto a Pianosa e Ventotene, a Gramsci, nato in un’isola, tenuto prigioniero per molti anni - dobbiamo fare in modo che quel cervello non pensi più - aveva detto un giudice fascista, ed invece proprio in carcere egli pensò e scrisse la sua opera principale. Al romanzesco Conte di Montecristo. Già Montecristo, altra isola dell’Arcipelago Toscano, con Pianosa, Il Giglio, Capraia, l'Elba e poi di altri Arcipelaghi, isole incantevoli come Ventotene, Favignana, le Tremiti, Pantelleria e Lipari, i posti più belli d’Italia trasformati in luoghi di detenzione e di pena, terre di confino. Insensibilità dello Stato per le bellezze naturali e sfiducia nei confronti dell’Istituzione carceraria, che faceva affidamento sulla barriera antievasione costituita dal mare più che sull’efficienza dei sistemi di controllo".


Avevo la macchina fotografica appesa al collo ed avevo scattato soltanto la prima foto. Mi ero calato nello spirito e quasi nel fisico di un detenuto qualsiasi, che veniva condotto in carcere in un’isola. Quella scelta era Capraia, la meno turistica, dannata già dai tempi di Dante “muovansi la Capraia e la Gorgona e faccian siepe ad Arno in su la foce…”, che non conoscevamo e che si prestava bene per questa finzione.


Dopo due giorni sapevo abbastanza dell’isola e potevo parlarne come uno dei 412 abitanti del Comune di Capraia. Quello che più mi interessava era la visita agli stabilimenti del carcere, chiamato in seguito Colonia Penale Agricola, in cui i detenuti potevano lavorare all’aperto. L’edificio principale, un vecchio convento di S. Antonio, conteneva gli alloggi delle guardie, più le celle dei carcerati, le stesse già usate dai frati, allineate sotto il porticato del chiostro e le diverse Diramazioni, che erano complessi edilizi dislocati in vari punti dell’Isola, a seconda dell’attività che vi si esercitava. A parte, su una collinetta, il castelletto del Direttore, col suo giardino. Le attività andavano dai lavori di agricoltura e di pastorizia, alla lavorazione delle acciughe. Le Diramazioni avevano nomi come la Salata, l’Aghiale, l’Ovile il Caseificio e la Mortola. I detenuti che lavoravano potevano spostarsi da uno stabilimento all’altro liberamente. Curioso che nonostante questo sistema di semilibertà, tutti i locali destinati ad ospitarli fossero comunque dotati di sbarre alle finestre.


C’era anche un piccolo cimitero dove forse riposavano i frati insieme ai carcerati, un bell’esempio di integrazione post-mortem. Ma c’era poi tanta differenza tra la vita menata dai frati mendicanti che avevano percorso quegli stessi sentieri pietrosi e spinosi, coi loro sandali e quella costretti a trascinare questi reietti della società sotto il peso delle loro colpe? Luogo di penitenza per gli uni e di pena per gli altri. Visioni ascetiche di un Paradiso in estate e di un Inferno d’inverno, per tutti.


E’ stato detto tante volte fino a diventare un luogo comune così usurato da non essere più spendibile, anche se corrispondente al vero che l’occhio del fotografo, come quello del pittore, guarda oltre la superficie delle cose ed indaga l’anima, cerca di cogliere quello che non si vede, la sostanza sottilissima che avvolge tutto ciò che chiamiamo realtà, che nasconde una seconda, una terza, forse un’infinita varietà di altre realtà, ma qui si sconfina nel paranormale, o per dirla col filosofo, nella metafisica.

L’isola è già di per sé una metafora. Luogo privilegiato di smisurate simbologie, nonluogo dal quale fuggire o nel quale annullarsi, sogno di ogni anima che si è persa o che vorrebbe perdersi nel vasto mare di solitudine, separatezza, per mettersi alla prova, misurarsi con l’ignoto, sprofondare nell’angoscia, per poi trovarsi nudo con se stesso. Essere detenuto in un’isola moltiplicava all’infinito la possibilità di metaforizzare l’esistenza, nella impossibilità di poterla governare.

Il senso di disorientamento dei carcerati doveva essere molto grande. Ognuno di noi è un’isola e per vivere ha bisogno di collegamenti esterni, altrimenti ci si sente abbandonati.

L’isola deve aver conosciuto storie di tutti i tipi. Vite vissute nel frastuono dei marosi che si abbattevano sugli scogli, di cui non restava niente, al di fuori di un piccolo cimitero anonimo. Gli scatti del fotografo cercano di ripercorrerne il cammino, in una o molte immagini, dove ciò che conta non è l’aspetto del paesaggio, la patina del colore locale, ma la sensazione di entrarci dentro, mettere il piede dove altri mitici abitatori l’hanno messo in tempi immemorabili e pensare esattamente come loro, per carpirne il segreto.


La colonia penale è stata attiva per circa un secolo e alla sua chiusura, avvenuta nel 1986, ad un certo numero di vecchi ergastolani fu concessa la grazia e furono liberati. Molti di loro, non sapendo dove andare, decisero di rimanere sull’isola, con qualche perplessità da parte degli isolani. Quasi contemporaneamente, nel 1987 avvenne in Italia un fatto singolare. Il Colonnello Gheddafi, Rais della Libia, avanzò ufficialmente una richiesta di annessione delle Isole Tremiti al suo Paese, come risarcimento di guerra e con l’assurda pretesa che, essendo stati deportati colà, a suo tempo, circa 1400 libici e molti di essi vi erano morti, l’arcipelago dovesse essere considerato territorio libico. Anche qui i problemi di integrazione con la popolazione residente, non furono pochi ed i morti a causa di malattie infettive importate dal deserto africano, furono seppelliti in un reparto del cimitero di S. Nicola.

L’ombra grigia e decadente del penitenziario ora in uno squallido abbandono, non fa che aumentare la sensazione di straniamento dei luoghi e a buon diritto si parla di isola dei fantasmi, fantasmi che hanno popolato un universo a parte, luogo di penitenza di poveri esseri dimenticati, fantasmi di isolani quasi inesistenti, fantasmi della nostra coscienza che si agitano tra le balze scoscese dell’isola.

Una settimana, sono stato a Capraia. Avevo girato intensamente, lontano dai luoghi più turistici e rumorosi. Sul traghetto di ritorno, la nave aveva appena lasciato il porto e già l’isola scompariva dietro la cortina di nebbia sottile.



"Penso che ci tornerò", guardando lontano, mi sembrava di scorgere le coste della Corsica, ma era un effetto ottico, "come documentatore di stati d’animo e senza rinunciare a bagnarmi in quelle acque cristalline, come d’altra parte era consentito fare ai carcerati più meritevoli e facevano comunque anche gli altri, di nascosto. Sento che qualcosa mi chiama, forse i fantasmi dell’Isola che ho evocato. E' tempo di recuperare una dimensione umana che mi sembra di aver perso tra quelle mura e quegli scogli".

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