IMPONDERABILE

In quella fase della sua “filosofia”, Maurizio era portato a fare riflessioni che lo conducevano a conclusioni contraddittorie. Se da un lato gli piaceva indagare sul significato originario delle parole, dall’altra non voleva sottostare alla dittatura di una disciplina, come quella accademica, che imponeva determinati percorsi mentali, ma voleva sentirsi libero di una propria, autonoma capacità di interpretazione magari fantasiosa, ma che più soddisfaceva il suo istinto, mediante il quale credeva di poter “sentire” la radice di ogni cosa sulla sua stessa pelle ed agire a seconda del modo di manifestarsi di questa cosa ai suoi sensi.



Ne aveva parlato con Chiara, la quale aveva una sua visione della cosa, che si manteneva nel solco della tradizione, ma non voleva disilludere Maurizio, nel quale vedeva, una carica di entusiasmo visionario, che lei giudicava capace di possibili, futuri sviluppi.

“Quella tua si potrebbe chiamare una semantica “creativa”, da affiancare alla semiotica generativa già esistente, un’assoluta novità nel campo dei semiologi” gli aveva detto una volta ridendo, però le piaceva quel modo fantasioso di procedere alla ricerca del senso ultimo di ogni termine.

Il periodo che stavano attraversando non era dei più favorevoli a meditazioni allegre ed infatti lei vedeva che la maggior parte delle riflessioni di Maurizio vertevano su temi legati al destino, alla incomprensibilità delle cose, alla ineluttabilità di certi eventi.

Erano in verità, giorni di grande tristezza, Maurizio aveva perso suo padre da poco tempo, ai primi di marzo di quell’anno ed i giorni che erano seguiti al grande vuoto che si era creato in quella casa, abitata ormai solo da lui e da sua madre, erano stati di un grigiore assoluto, una lenta monotonia, cadenzata soltanto da piogge intermittenti. Maurizio, come sempre faceva nei momenti di crisi, si rifugiava nella lettura; in quel periodo era cominciata la pubblicazione di una rivista periodica dell’Istituto Geografico De Agostini, intitolata “Atlante”, che parlava di paesi e di popoli, ed egli vi si rifugiò, per evadere, concentrandosi sull’argomento del primo numero in edicola, dedicata all’Isola di Bali ed ai suoi abitanti.

Sua madre sembrava un fantasma ed egli, pur volendo, non riusciva a fare qualcosa per sollevarla dal suo stato, cosa che gli procurava ancora maggiore sofferenza. A rendere la situazione più pesante, c’erano le visite di condoglianza che parenti, amici e conoscenti, per un senso di partecipazione affettuosa, si ritenevano in dovere di fare, rinnovando ogni volta le emozioni e lo strazio del momento più tragico della loro vita.

Tra queste, inattesa eppur gradita, fu l’improvvisa comparsa di Maria, la vedova di un suo cugino, con la quale i vincoli di parentela si erano di molto allentati, non per motivi particolari, ma solo per quelle situazioni che si creano in maniera inesplicabile, e poi si trascinano per l’intera esistenza.

Maria era una donna risoluta ed allegra, gran chiacchierona, forte e pragmatica, temprata dalle circostanze, che dopo la perdita del marito, menava una vita decorosa, ma appartata, dedicando il suo tempo ai due figli ancora ragazzi, fra aspettative per il loro avvenire e ricordi per sé stessa. Aveva conosciuto ed apprezzato l’amicizia di Chiara che ogni tanto andava a casa di Maurizio, specie dopo la disgrazia, avendo un buon rapporto con Angela, sua madre.

Con grande abilità Maria, dopo i primi convenevoli, aveva portato il discorso su argomenti vari, passando con disinvoltura a temi più leggeri. Ad un tratto, come per un’improvvisa illuminazione, un pensiero inatteso le era passato per la testa; rivolgendosi direttamente a Maurizio, gli chiese:

“Ma tu tieni una rubrica sul web? Scrivi qualcosa che pubblichi in un tuo sito?”

Maurizio, piuttosto meravigliato, esitò alquanto, poi, quasi confessando qualcosa di disdicevole,

“S…si…sì! Ho un blog sul quale pubblico appunti e cose varie, che pochissimi conoscono e vanno a consultare. Perché me lo chiedi?”

“Perché qualcuno mi ha fatto vedere dei tuoi scritti e ti dirò che la cosa mi è parsa subito simpatica, in quanto non immaginavo che tu avessi questo hobby, ma il fatto più singolare è stato che in uno di questi tuoi pezzi, che sembrava una fiction, ho trovato dei riferimenti ad avvenimenti reali che mi riguardano. Ti giuro, mi sono commossa, perché non potevo assolutamente prevedere, specie dopo tutto il tempo che è passato, di trovare ancora un ricordo di quello che accadde a casa mia quella sera. Tu sicuramente non avevi nessuna intenzione di arrivare fino a me, Maurizio, ma il fatto che tu abbia conservato quel ricordo, ha aumentato la mia stima per te ed io ti sono grata per questo.

“Hai scritto un racconto in cui ho riconosciuto mio marito, i miei figli, me stessa, colti nel momento disperato di una perdita, ma non hai fatto niente per farcelo sapere; sei rimasto nell’ombra, come un "ghost writer.”
“Maria” rispose Maurizio sinceramente sorpreso, “ti ringrazio di queste belle parole, ma, ti assicuro, non capisco di cosa parli.”
“Ma sì che lo sai! E’ un racconto scritto qualche anno fa in cui tu parli di un ragazzo, studente universitario, il quale fa la sua prima esperienza con la morte, trovandosi per caso ad assistere alla morte di un suo cugino, coetaneo, colpito da una brutta malattia. Fa molte riflessioni sulla imponderabilità del destino di tutti gli uomini, sulla imprevedibilità di alcuni avvenimenti che possono cambiare il corso della loro vita, ed infine trova una forma di consolazione nella constatazione che, prevedibile o imprevedibile, precoce o tardiva, la morte è sempre il coronamento di una vita, che forse, senza di essa, sarebbe senza senso. La morte, dici, è cosa certa, quanto al suo verificarsi, anche se non si può sapere quando essa avverrà. Ed è motivo per pensare a quello che uno vuole fare della sua vita”.
“In quel racconto” interloquì Chiara, che aveva ascoltato con grande attenzione le parole di Maria, “il nucleo principale ruota intorno al concetto di “imponderabile”, con una bella similitudine tra ciò che non si può valutare per assenza di peso e quello che non si può pensare, per assenza di elementi che ne possano determinare la conoscenza. Infatti il pesare ed il pensare hanno la stessa origine, derivano dal verbo ‘ponderare’, che significa pesare, ma anche pensare, perché noi diamo un peso alle cose, valutandone la pesantezza materiale, così come attribuiamo un senso ad un determinato elemento, argomentando con la mente, cosa per cui “ponderare” è sinonimo di “cogitare”. Il peso ed il pensiero, dunque, sullo steso piano, dando la prevalenza, come senso ultimo della parola, a quest’ultima nozione che è quella più rispondente al nostro moderno modo di vedere e di sentire l’imponderabilità, in senso metaforico piuttosto che reale”.
“Ma quello che di più mi ha colpito e commosso” , riprese Maria “ di questo incontro fortuito con il tuo racconto, è che l’imponderabilità di cui tu parlavi, per le vicende che stavi vivendo allora, pesava ancora di più su di me, che leggendolo, a distanza di tanto tempo ed in modo del tutto imprevedibile mi ci sono ritrovata dentro.
“Mi riferisco a quella parte, in cui il ragazzo, dopo la morte del cugino ed amico, col quale aveva condiviso interessi e passioni, mentre nella casa si crea un’atmosfera surreale, fra lo strazio, i pianti, l’intervento premuroso di vicini e conoscenti, e l’improcrastinabile necessità di provvedere alle incombenze funerarie, egli si rifugia nello studio di casa, dove il morto aveva passato le ore più belle, e lì trova la panacea per la sua anima sconvolta. Tutt’intorno, i libri noti e condivisi, i dischi di Jazz, ascoltati insieme, e sullo scrittoio, sotto una grande lampada, vari oggetti di affezione, una penna stilografica, un fermacarte a forma di gufo, un orologio da tavolo; a sinistra della cartella passamano, era posto un cofanetto contenente due volumi, il terzo era aperto sul tavolo. William Shakespeare, Le Opere, edizione lusso, carta india e legatura in pelle, titoli in oro.
“Egli si appressò e sedette allo scrittoio, con un senso di perplessità e di disagio: sentiva di stare occupando un posto non suo, era come se cercasse di usurpare un ruolo, mettersi nei panni di qualcun’altro, ospitarne lo spirito. Si guarda intorno smarrito: i libri non sembrano accoglierlo, si presentano ermetici; non si avvertono rumori, il silenzio è greve. Una mestizia di fondo pervade l’ambiente, il suo sguardo scorre sulle costole dei libri in bell’ordine sugli scaffali, con una muta preghiera ‘parlatemi, per favore’ , poi si posa sulla pagina del libro aperto sotto i suoi occhi. Il nastrino segnalibro, rosso, è posato sinuosamente sul foglio color carta paglia, un serpentello tra i caratteri a stampa. “La Tempesta”, è al suo epilogo, gli incantesimi sono finiti, non resta che il canto sulla libertà. Ma mentre la scena si chiude, per il giovane si apre un mondo nel quale egli sente di poter vivere e seguire le sue aspirazioni. Quando tutto è pronto per la rappresentazione del dramma della morte egli lascia lo studio e passa il resto del tempo, fino all’alba, a fianco del feretro, in muto colloquio con gli spiriti che vengono ad onorare suo cugino. Poi, prima che nella casa si metta in moto la triste macchina dell’addio, indisturbato si allontana ed esce.
“Ho capito di cosa stavi parlando, quando ho letto la descrizione che fai dei tre libri; ho sentito che mi erano familiari: sono andata in libreria, ed ho individuato immediatamente la fonte della tua ispirazione. Sono tre volumi che mio marito aveva ereditato da suo padre e dei quali egli andava molto orgoglioso ed ai quali era affezionatissimo. Sono ancora nella mia libreria e sono come nuovi, anche se io, dopo la lettura del tuo racconto, sono andata molto spesso a prenderli e me li sono portati la sera a letto, passando intere notti insonni in loro compagnia. Imparando così a convivere con i personaggi delle tragedie e delle commedie del Bardo che mi hanno così profondamente aiutato negli ultimi tempi, al punto che talvolta mi è difficile distinguere la realtà dalla fantasia.
“L’imponderabile è tra noi e non è solo l’imprevedibilità del caso, o del destino, ma l’intima interconnessione tra ciò che per noi è valutabile e ciò che non lo è. Come ha agito il caso in questa storia? La nostra storia di oggi, non quella di ieri, da te narrata nel racconto. Il caso ci ha uniti intorno a quei libri, nel tempo, il padre del mio povero marito, suo figlio, tu ed io, che in essi abbiamo trovato il punto d’incontro tra passato e presente.”

Tacque e ristette, assorta, come sognante, gli occhi rivolti verso il suo interlocutore senza vederlo, persi, molto oltre la persona di Maurizio, dietro la tenda spessa della finestra alle sue spalle. Questi, impressionato, si girò come preso da incantamento: nella stanza tutto era fermo, eppure egli aveva visto con la coda dell’occhio, lo spirito di Amleto che attraversava lo spazio a passo risoluto ed ora stava per trafiggere con la sua spada, Polonio, nascosto dietro l’arazzo.

Un attimo di costernazione generale; tutti fermi come in attesa di qualcosa che dovesse succedere.

“Ah, no!“ disse forte Chiara spezzando l’incantesimo, “bando ai sortilegi. Qui occorre tenere i piedi per terra e fugare le ombre. Sono stata io a dire ad un comune amico di consigliare a Maria di leggere quel racconto, perché sapevo che parlava di lei e della sua famiglia.

Maurizio, scendi dalle nuvole e vieni tra noi; anche se trovo anch’io che il racconto che hai scritto a suo tempo è bello, nessuno deve pensare che ci sia una causa esterna che ha guidato Maria a scoprire quello che prima non sapeva. Il merito se mai è di Shakespeare, che è riuscito a piazzare ad oltre quattrocento anni dalla morte, uno dei suoi colpi di scena magistrali e ciò non deve meravigliarci."

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