IL MIGLIORE DEI MONDI POSSIBILI
Gottfried W. von Leibniz, poliedrico pensatore tedesco che visse a cavallo tra la seconda metà del ‘600 e l’inizio del ‘700, cui si debbono contributi fondamentali in campi che vanno dalla logica e dalla matematica alla metafisica e alla teologia, è generalmente noto per aver coniato il concetto di migliore dei mondi possibili.
Leibniz, da buon cristiano, tornò infatti a interrogarsi su un classico problema teologico, quello dell’esistenza del male nel mondo, una questione già abbondantemente trattata dai padri della chiesa (sono celebri i contributi di S. Agostino in tale ambito), ma sulla quale riteneva evidentemente di poter addurre nuove e più convincenti argomentazioni.
Com’è del tutto evidente, qualsiasi religione che concepisca il mondo come creatura di un Dio buono, onnisciente e onnipotente, un minuto dopo aver definito il proprio credo deve rispondere alla domanda sul perché esistano il male e la sofferenza nel creato.
Questi tratti negativi sembrano infatti del tutto incompatibili con il presupposto della bontà della natura divina o con quello della sua onnipotenza, o quantomeno con l’unicità dell’Ente supremo, anch’essa professata dalle religioni monoteiste.
Se si vuole continuare ad escludere, rimanendo fedeli all’assunto monoteista, l’esistenza di un principio del male che, come credevano i manichei, si contrapponga strutturalmente a quello del bene, da dove traggono origine allora le immani tragedie che appaiono costellare la storia dell’uomo e del mondo?
Se ci si riferisce unicamente alla sofferenza che scaturisce come conseguenza delle scelte, più o meno consapevoli, dell’umanità, il problema teologico della presenza del male nel mondo era stato già risolto da Agostino, che lo aveva ricondotto alla concessione del libero arbitrio all’uomo da parte di Dio.
L’uomo è arbitro del proprio destino, può quindi scegliere il bene o il male, e di ciò dovrà dar conto nel momento del redde rationem.
Leibniz era tuttavia protestante e, in quanto tale, non credeva nel libero arbitrio (Lutero, nel qualificare la condizione umana, aveva infatti sostenuto la posizione antitetica del “servo arbitrio”).
Ma se il male non è quindi riconducibile alla volontà umana, allora da dove scaturisce, di grazia?
Nel dare risposta a tale quesito Leibniz ritorna, approfondendolo, su un altro classico concetto agostiniano, quello di male metafisico.
Per Agostino, che su questo punto si schiera su posizioni platoniche, deve esistere di necessità una quota di imperfezione nel creato, se lo stesso deve essere “altro” dal creatore.
Non avrebbe infatti nessun senso per Dio duplicare se stesso. Secondo Leibniz, anzi, questa sarebbe proprio una cosa logicamente impossibile, in quanto nel caso si desse la presenza di due sostanze divine tra loro perfettamente identiche, le stesse non sarebbero distinguibili, sarebbe a tutti gli effetti come se ce ne fosse una sola.
Se al mondo deve esistere una seconda sostanza (o un insieme di sostanze, il creato) che non coincida con la sostanza divina, e se si assume che Dio assommi su di se tutte le perfezioni possibili, la sostanza “non divina” dovrà di necessità essere in qualche misura imperfetta, altrimenti sarebbe indistinguibile da Dio (1).
Da tale necessaria condizione di imperfezione trae quindi origine il male che metafisicamente connota la condizione dell’intero creato.
Se già Agostino aveva quindi prodotto argomentazioni razionali sufficienti a sostegno della tesi della necessaria occorrenza di una certa quota di imperfezione nel creato, egli non si era però spinto molto oltre nel qualificare tale presenza.
Anche volendo ammettere che esista una quota ineluttabile di male nel mondo - riconducibile al fatto che esso è creatura e non creatore - una questione che si pone immediatamente dopo è la seguente: quanto è onerosa la quota di male metafisico che grava sul mondo?
E’ del tutto evidente che se esistesse nell’universo anche un minimo sovrappiù di sofferenza rispetto alla quantità strettamente necessaria in base alle considerazioni sopra svolte, ciò porrebbe di nuovo in questione la somma bontà del creatore.
E’ precisamente su questo punto che si innesta la Teodicea di Leibniz, neologismo coniato dallo stesso autore e che vuol dire giustizia di Dio. In tale trattato, il filosofo dimostra infatti che Dio dovrà di necessità agire affinché il mondo da lui creato contenga la minore quantità ammissibile di male metafisico, facendo quindi di esso, a tutti gli effetti, il migliore dei mondi possibili (2).
Ma vediamo innanzitutto che cos’é che qualifica un mondo come concretamente possibile.
O meglio, che cosa fa si che siano pensabili dei mondi che, anche per Dio (che, ricordiamolo, è onnipotente) è impossibile creare.
Il concetto di possibilità in Leibniz è strettamente connesso all’esistenza di leggi di natura immutabili nell’universo.
Dio può evidentemente decidere arbitrariamente da che tipo di leggi far governare il mondo che si accinge a creare, ma una volta che egli le abbia dettate, le leggi diventano vincolanti anche per l’azione divina.
Esemplificando: Dio può creare un mondo in cui sia o meno presente la legge di gravità, ma se impone che esista la gravità nell’universo, diviene poi impossibile anche per lui far muovere le cose in maniera diversa da come tale legge prescrive.
Non esiste quindi in Leibniz il concetto, tipicamente cattolico, di divina intercessione.
Quello dei luterani non è infatti un Dio interventista, e meno che mai un Dio che compie miracoli su richiesta.
Se ci pensiamo ciò è del tutto ovvio. Dato che Dio, come tutti convengono, è onnisciente, egli può contemplare già prima dell’atto della creazione l’intera traiettoria temporale del creato.
Pensare che Dio debba intervenire nel corso della storia per correggere il corso degli eventi è quindi del tutto incompatibile con l’esistenza di tale preveggenza e con l’onnipotenza divina.
Se c’era qualcosa che poteva essere fatto meglio nel mondo, Dio lo avrebbe fatto sin dal principio, datosi che di certo non gliene mancavano i mezzi (su questa aporia c’è un bellissimo scambio di battute nella corrispondenza di Leibniz con il newtoniano Clarke) (3).
Di fronte a una sciagura, pensiamo a un incidente in cui abbiamo perso una persona cara, viene spontaneo di pensare: come fa a non essere possibile che che esista un mondo migliore di questo, basterebbe che tale mondo fosse del tutto identico a questo, fatto salvo il fatto che in esso l'incidente non si verifica.
Ahimè, le cose non stanno purtroppo in maniera così semplice.
L’incidente in questione deve essere infatti ricondotto a tutta la concatenazione di cause antecedenti che hanno concorso nel determinarlo.
Ogni azione che noi compiamo influenza tutte quelle successive. Perché un’azione nel futuro si presenti diversamente, perché ad esempio non avvenga che il guidatore si distragga durante la guida provocando così l’incidente, è quindi necessario che la sera precedente egli sia andato a dormire prima, potendo così mettersi più riposato alla guida il giorno dopo.
Ma per poter essere andato a letto presto il giorno prima è necessario cambiare l’intero corso della giornata, e per cambiare tale giornata è necessario che cambi il comportamento tenuto in tutte quelle precedenti, è necessario che, in qualche misura, cambino interamente le abitudini della persona.
Generalizzando: ogni evento che accade in questo mondo è determinato da tutte le circostanze che l’hanno preceduto, e a sua volta concorre a determinare tutti gli eventi futuri. Il mondo non è fatto di pezzi interscambiabili. Gli eventi che accadono sono tutti profondamente interconnessi.
Non posso quindi candidamente eliminare una data azione e sostituirla con un’altra pretendendo che tutto il resto del mondo - passato, presente e futuro - rimanga inalterato.
Ne segue che, l’uomo che chiedesse a Dio di cambiare un dato evento nella propria vita, lo porrebbe di fronte alla condizione estrema di dover sostituire questo mondo con un intero altro mondo, alternativo al primo, gli chiederebbe cioè di vivere in un mondo diverso, ma lui stesso a quel punto sarebbe diverso, perché saremmo tutti in un realtà totalmente diversa.
Allargando la portata dell’esempio, possiamo certamente pensare che Dio avrebbe potuto creare un mondo in cui non nascesse Adolf Hitler, ma questo gli avrebbe richiesto di cambiare tutti i suoi ascendenti, l’intera serie dei suoi antenati. In tal modo potremmo scoprire che, al fine evitare che nascesse Hitler, Dio avrebbe dovuto impedire che prima di lui venissero al mondo, che so, personaggi come Goethe, Mozart o, procedendo ancora indietro nel tempo, magari Platone o Aristotele.
In parole povere, per impedire che venisse al mondo Hitler, Dio avrebbe dovuto cambiare l’intera storia dell’umanità, passata, presente e futura.
E come facciamo noi a sapere se esiste una storia alternativa dell’umanità, tra quelle possibili, che non contempli la presenza di Hitler, del nazismo, della Shoa e che sia, nel suo complesso, una storia migliore e più felice. In questo mondo alternativo ci potrebbero già essere state delle sciagure di simile portata nel passato, o innumerevoli altre se ne potrebbero presentare in futuro.
Siccome, oltre che onnisciente, per i credenti Dio è anche onnipotente e buono, una volta individuato il migliore dei mondi possibili, egli non potrà che dare concretamente vita a tale universo.
Anche il grande scrittore di fantascienza Isaac Asimov, nel suo capolavoro La fine dell’eternità, prende di petto la questione filosofica del migliore dei mondi possibili, in questo caso partendo da un punto di visto che non ha nulla a che vedere con quello teologico di Leibniz e di S. Agostino.
Immaginando che, in un non lontano futuro, l’umanità disponga di calcolatori di sterminata potenza e che, allo stesso tempo, si sia resa disponibile una fonte di energia in quantità in precedenza inimmaginabili, lo scrittore ipotizza che l’uomo cominci a intraprendere dei viaggi nel tempo, muovendosi sia nel passato sia nel futuro (un classico tema del genere).
Potendosi spingere indietro nel tempo, gli uomini si rendono presto conto che in tal modo si rende concretamente possibile alterare la storia dell’umanità. Potendo viaggiare nel futuro, essi sono allo stesso tempo in grado di verificare gli effetti concretamente prodotti sulle future civiltà umane dalle modifiche apportate alla storia passata.
Una ristretta cerchia di eletti, l’Eternità, inizia quindi a esercitarsi nell’apportare mutamenti via via sempre più radicali agli eventi accaduti in passato, esattamente nell’intento di rendere la storia dell’umanità quanto più simile a quella che, secondo il loro modo di vedere, si sarebbe dispiegata nel migliore dei mondi possibili.
Non volendo rovinare la sorpresa a chi non ha ancora letto il libro, dico solo che l’elite descritta da Asimov scoprirà a un certo punto che l’idea che l’uomo possa sostituirsi a Dio nel disegnare il migliore dei mondi possibili non è poi così allettante come poteva sembrare all’inizio.
La questione del migliore dei mondi possibili, nata in ambito squisitamente teologico, in cui assume una rilevanza cruciale, si presenta quindi non meno dirimente nella prospettiva, totalmente laica, della fantascienza novecentesca.
Ed è in una tale ottica che credo noi oggi possiamo derubricare al rango di mere facezie le battute di Voltaire che, dimostrando di non aver affatto compreso (o quanto meno di non conoscere a fondo) le tesi del filosofo prussiano, irrise la Teodicea invitando Leibniz a chiedere agli abitanti di Lisbona, appena colpita da un devastate terremoto, se davvero pensassero di vivere nel migliore dei mondi possibili.
I progressi della scienza moderna, e in particolare la scoperta delle complesse dinamiche che sottostanno al processo di deriva dei continenti, hanno reso del tutto evidente oggi (ma una persona acuta ci sarebbe potuta arrivare anche all’epoca dell’illuminismo) che fenomeni naturali come i terremoti e le eruzioni vulcaniche non sono che il segno della perdurante vitalità del nostro pianeta. Nel momento in cui dovessero cessare del tutto, sarebbe quindi giunta per l’umanità l’ora di iniziare a cercarsene un altro, perché di lì a poco di vita sulla Terra non se ne riscontrerebbe più.
Sono infatti proprio le forze interne al pianeta che, inabissando le zolle tettoniche da un lato e facendole risorgere dall’altro, producono il continuo ringiovanimento della crosta terrestre, opponendosi in tal modo all’altrimenti inevitabile degrado entropico che ridurrebbe ben presto la Terra a una specie di palla da biliardo (ammettendo che il pianeta conservi, “a zolle ferme”, una qualche atmosfera, in grado quindi di far proseguire i processi di erosione superficiale, e non si trasformi invece in una sorta di grande Luna, ugualmente inospitale per la vita).
Non so voi, ma tra l’illuminismo assai poco illuminato di Voltaire e le profonde speculazioni metafisiche del filosofo prussiano io non ho dubbi da che parte schierarmi.
Come si fa a pensare che quello che comanda eruzioni, terremoti e inondazioni sia un Dio (o una Natura, se preferite) perverso e spietato?
E’ semplicemente che il mondo meglio di così non viene.
Ovviamente a patto di volerne uno vivo, un mondo in cui esista la vita come la conosciamo e la sperimentiamo tutti i giorni.
Tra gli infiniti mondi possibili esistono certamente anche degli universi in cui la vita non c’é. Un creato senza vita è anche evidentemente un mondo del tutto privo di sofferenza, un universo in cui il problema del male nemmeno si pone.
Ma potrebbe mai qualificarsi come il migliore dei mondi possibili?
NOTE
(1) Sostanza è termine aristotelico, di cui trovate una descrizione meno manualistica e, mi auguro, un po’ più intuitiva del solito in questo mio contributo sullo Zibaldino (https://www.aielli.org/2019/03/forma-e-sostanza.html).
(2) Per molte delle argomentazioni sulla Teodicea riportate nel testo sono debitore dell’ottima lezione tenuta sul tema da Gianfranco Mormino, disponibile su YouTube al seguente indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=YIVG3Mj7msI.
Leibniz, da buon cristiano, tornò infatti a interrogarsi su un classico problema teologico, quello dell’esistenza del male nel mondo, una questione già abbondantemente trattata dai padri della chiesa (sono celebri i contributi di S. Agostino in tale ambito), ma sulla quale riteneva evidentemente di poter addurre nuove e più convincenti argomentazioni.
Com’è del tutto evidente, qualsiasi religione che concepisca il mondo come creatura di un Dio buono, onnisciente e onnipotente, un minuto dopo aver definito il proprio credo deve rispondere alla domanda sul perché esistano il male e la sofferenza nel creato.
Questi tratti negativi sembrano infatti del tutto incompatibili con il presupposto della bontà della natura divina o con quello della sua onnipotenza, o quantomeno con l’unicità dell’Ente supremo, anch’essa professata dalle religioni monoteiste.
Se si vuole continuare ad escludere, rimanendo fedeli all’assunto monoteista, l’esistenza di un principio del male che, come credevano i manichei, si contrapponga strutturalmente a quello del bene, da dove traggono origine allora le immani tragedie che appaiono costellare la storia dell’uomo e del mondo?
Se ci si riferisce unicamente alla sofferenza che scaturisce come conseguenza delle scelte, più o meno consapevoli, dell’umanità, il problema teologico della presenza del male nel mondo era stato già risolto da Agostino, che lo aveva ricondotto alla concessione del libero arbitrio all’uomo da parte di Dio.
L’uomo è arbitro del proprio destino, può quindi scegliere il bene o il male, e di ciò dovrà dar conto nel momento del redde rationem.
Leibniz era tuttavia protestante e, in quanto tale, non credeva nel libero arbitrio (Lutero, nel qualificare la condizione umana, aveva infatti sostenuto la posizione antitetica del “servo arbitrio”).
Ma se il male non è quindi riconducibile alla volontà umana, allora da dove scaturisce, di grazia?
Nel dare risposta a tale quesito Leibniz ritorna, approfondendolo, su un altro classico concetto agostiniano, quello di male metafisico.
Per Agostino, che su questo punto si schiera su posizioni platoniche, deve esistere di necessità una quota di imperfezione nel creato, se lo stesso deve essere “altro” dal creatore.
Non avrebbe infatti nessun senso per Dio duplicare se stesso. Secondo Leibniz, anzi, questa sarebbe proprio una cosa logicamente impossibile, in quanto nel caso si desse la presenza di due sostanze divine tra loro perfettamente identiche, le stesse non sarebbero distinguibili, sarebbe a tutti gli effetti come se ce ne fosse una sola.
Se al mondo deve esistere una seconda sostanza (o un insieme di sostanze, il creato) che non coincida con la sostanza divina, e se si assume che Dio assommi su di se tutte le perfezioni possibili, la sostanza “non divina” dovrà di necessità essere in qualche misura imperfetta, altrimenti sarebbe indistinguibile da Dio (1).
Da tale necessaria condizione di imperfezione trae quindi origine il male che metafisicamente connota la condizione dell’intero creato.
Se già Agostino aveva quindi prodotto argomentazioni razionali sufficienti a sostegno della tesi della necessaria occorrenza di una certa quota di imperfezione nel creato, egli non si era però spinto molto oltre nel qualificare tale presenza.
Anche volendo ammettere che esista una quota ineluttabile di male nel mondo - riconducibile al fatto che esso è creatura e non creatore - una questione che si pone immediatamente dopo è la seguente: quanto è onerosa la quota di male metafisico che grava sul mondo?
E’ del tutto evidente che se esistesse nell’universo anche un minimo sovrappiù di sofferenza rispetto alla quantità strettamente necessaria in base alle considerazioni sopra svolte, ciò porrebbe di nuovo in questione la somma bontà del creatore.
E’ precisamente su questo punto che si innesta la Teodicea di Leibniz, neologismo coniato dallo stesso autore e che vuol dire giustizia di Dio. In tale trattato, il filosofo dimostra infatti che Dio dovrà di necessità agire affinché il mondo da lui creato contenga la minore quantità ammissibile di male metafisico, facendo quindi di esso, a tutti gli effetti, il migliore dei mondi possibili (2).
Ma vediamo innanzitutto che cos’é che qualifica un mondo come concretamente possibile.
O meglio, che cosa fa si che siano pensabili dei mondi che, anche per Dio (che, ricordiamolo, è onnipotente) è impossibile creare.
Il concetto di possibilità in Leibniz è strettamente connesso all’esistenza di leggi di natura immutabili nell’universo.
Dio può evidentemente decidere arbitrariamente da che tipo di leggi far governare il mondo che si accinge a creare, ma una volta che egli le abbia dettate, le leggi diventano vincolanti anche per l’azione divina.
Esemplificando: Dio può creare un mondo in cui sia o meno presente la legge di gravità, ma se impone che esista la gravità nell’universo, diviene poi impossibile anche per lui far muovere le cose in maniera diversa da come tale legge prescrive.
Non esiste quindi in Leibniz il concetto, tipicamente cattolico, di divina intercessione.
Quello dei luterani non è infatti un Dio interventista, e meno che mai un Dio che compie miracoli su richiesta.
Se ci pensiamo ciò è del tutto ovvio. Dato che Dio, come tutti convengono, è onnisciente, egli può contemplare già prima dell’atto della creazione l’intera traiettoria temporale del creato.
Pensare che Dio debba intervenire nel corso della storia per correggere il corso degli eventi è quindi del tutto incompatibile con l’esistenza di tale preveggenza e con l’onnipotenza divina.
Se c’era qualcosa che poteva essere fatto meglio nel mondo, Dio lo avrebbe fatto sin dal principio, datosi che di certo non gliene mancavano i mezzi (su questa aporia c’è un bellissimo scambio di battute nella corrispondenza di Leibniz con il newtoniano Clarke) (3).
Di fronte a una sciagura, pensiamo a un incidente in cui abbiamo perso una persona cara, viene spontaneo di pensare: come fa a non essere possibile che che esista un mondo migliore di questo, basterebbe che tale mondo fosse del tutto identico a questo, fatto salvo il fatto che in esso l'incidente non si verifica.
Ahimè, le cose non stanno purtroppo in maniera così semplice.
L’incidente in questione deve essere infatti ricondotto a tutta la concatenazione di cause antecedenti che hanno concorso nel determinarlo.
Ogni azione che noi compiamo influenza tutte quelle successive. Perché un’azione nel futuro si presenti diversamente, perché ad esempio non avvenga che il guidatore si distragga durante la guida provocando così l’incidente, è quindi necessario che la sera precedente egli sia andato a dormire prima, potendo così mettersi più riposato alla guida il giorno dopo.
Ma per poter essere andato a letto presto il giorno prima è necessario cambiare l’intero corso della giornata, e per cambiare tale giornata è necessario che cambi il comportamento tenuto in tutte quelle precedenti, è necessario che, in qualche misura, cambino interamente le abitudini della persona.
Generalizzando: ogni evento che accade in questo mondo è determinato da tutte le circostanze che l’hanno preceduto, e a sua volta concorre a determinare tutti gli eventi futuri. Il mondo non è fatto di pezzi interscambiabili. Gli eventi che accadono sono tutti profondamente interconnessi.
Non posso quindi candidamente eliminare una data azione e sostituirla con un’altra pretendendo che tutto il resto del mondo - passato, presente e futuro - rimanga inalterato.
Ne segue che, l’uomo che chiedesse a Dio di cambiare un dato evento nella propria vita, lo porrebbe di fronte alla condizione estrema di dover sostituire questo mondo con un intero altro mondo, alternativo al primo, gli chiederebbe cioè di vivere in un mondo diverso, ma lui stesso a quel punto sarebbe diverso, perché saremmo tutti in un realtà totalmente diversa.
Allargando la portata dell’esempio, possiamo certamente pensare che Dio avrebbe potuto creare un mondo in cui non nascesse Adolf Hitler, ma questo gli avrebbe richiesto di cambiare tutti i suoi ascendenti, l’intera serie dei suoi antenati. In tal modo potremmo scoprire che, al fine evitare che nascesse Hitler, Dio avrebbe dovuto impedire che prima di lui venissero al mondo, che so, personaggi come Goethe, Mozart o, procedendo ancora indietro nel tempo, magari Platone o Aristotele.
In parole povere, per impedire che venisse al mondo Hitler, Dio avrebbe dovuto cambiare l’intera storia dell’umanità, passata, presente e futura.
E come facciamo noi a sapere se esiste una storia alternativa dell’umanità, tra quelle possibili, che non contempli la presenza di Hitler, del nazismo, della Shoa e che sia, nel suo complesso, una storia migliore e più felice. In questo mondo alternativo ci potrebbero già essere state delle sciagure di simile portata nel passato, o innumerevoli altre se ne potrebbero presentare in futuro.
Noi, in quanto umani, non possiamo saperlo, ma, almeno per Leibniz e per tutti quelli che come lui credono nell’esistenza di un ente supremo, Dio, essendo onnisciente, è perfettamente in grado di valutare le traiettorie temporali di tutti gli innumerevoli mondi possibili ed è quindi, lui solo, capace di individuare il mondo che, nel corso dell’intera sua storia, presenterà il migliore bilanciamento possibile tra bene e male.
Siccome, oltre che onnisciente, per i credenti Dio è anche onnipotente e buono, una volta individuato il migliore dei mondi possibili, egli non potrà che dare concretamente vita a tale universo.
Anche il grande scrittore di fantascienza Isaac Asimov, nel suo capolavoro La fine dell’eternità, prende di petto la questione filosofica del migliore dei mondi possibili, in questo caso partendo da un punto di visto che non ha nulla a che vedere con quello teologico di Leibniz e di S. Agostino.
Immaginando che, in un non lontano futuro, l’umanità disponga di calcolatori di sterminata potenza e che, allo stesso tempo, si sia resa disponibile una fonte di energia in quantità in precedenza inimmaginabili, lo scrittore ipotizza che l’uomo cominci a intraprendere dei viaggi nel tempo, muovendosi sia nel passato sia nel futuro (un classico tema del genere).
Potendosi spingere indietro nel tempo, gli uomini si rendono presto conto che in tal modo si rende concretamente possibile alterare la storia dell’umanità. Potendo viaggiare nel futuro, essi sono allo stesso tempo in grado di verificare gli effetti concretamente prodotti sulle future civiltà umane dalle modifiche apportate alla storia passata.
Una ristretta cerchia di eletti, l’Eternità, inizia quindi a esercitarsi nell’apportare mutamenti via via sempre più radicali agli eventi accaduti in passato, esattamente nell’intento di rendere la storia dell’umanità quanto più simile a quella che, secondo il loro modo di vedere, si sarebbe dispiegata nel migliore dei mondi possibili.
Non volendo rovinare la sorpresa a chi non ha ancora letto il libro, dico solo che l’elite descritta da Asimov scoprirà a un certo punto che l’idea che l’uomo possa sostituirsi a Dio nel disegnare il migliore dei mondi possibili non è poi così allettante come poteva sembrare all’inizio.
La questione del migliore dei mondi possibili, nata in ambito squisitamente teologico, in cui assume una rilevanza cruciale, si presenta quindi non meno dirimente nella prospettiva, totalmente laica, della fantascienza novecentesca.
Ed è in una tale ottica che credo noi oggi possiamo derubricare al rango di mere facezie le battute di Voltaire che, dimostrando di non aver affatto compreso (o quanto meno di non conoscere a fondo) le tesi del filosofo prussiano, irrise la Teodicea invitando Leibniz a chiedere agli abitanti di Lisbona, appena colpita da un devastate terremoto, se davvero pensassero di vivere nel migliore dei mondi possibili.
I progressi della scienza moderna, e in particolare la scoperta delle complesse dinamiche che sottostanno al processo di deriva dei continenti, hanno reso del tutto evidente oggi (ma una persona acuta ci sarebbe potuta arrivare anche all’epoca dell’illuminismo) che fenomeni naturali come i terremoti e le eruzioni vulcaniche non sono che il segno della perdurante vitalità del nostro pianeta. Nel momento in cui dovessero cessare del tutto, sarebbe quindi giunta per l’umanità l’ora di iniziare a cercarsene un altro, perché di lì a poco di vita sulla Terra non se ne riscontrerebbe più.
Sono infatti proprio le forze interne al pianeta che, inabissando le zolle tettoniche da un lato e facendole risorgere dall’altro, producono il continuo ringiovanimento della crosta terrestre, opponendosi in tal modo all’altrimenti inevitabile degrado entropico che ridurrebbe ben presto la Terra a una specie di palla da biliardo (ammettendo che il pianeta conservi, “a zolle ferme”, una qualche atmosfera, in grado quindi di far proseguire i processi di erosione superficiale, e non si trasformi invece in una sorta di grande Luna, ugualmente inospitale per la vita).
Non so voi, ma tra l’illuminismo assai poco illuminato di Voltaire e le profonde speculazioni metafisiche del filosofo prussiano io non ho dubbi da che parte schierarmi.
Come si fa a pensare che quello che comanda eruzioni, terremoti e inondazioni sia un Dio (o una Natura, se preferite) perverso e spietato?
E’ semplicemente che il mondo meglio di così non viene.
Ovviamente a patto di volerne uno vivo, un mondo in cui esista la vita come la conosciamo e la sperimentiamo tutti i giorni.
Tra gli infiniti mondi possibili esistono certamente anche degli universi in cui la vita non c’é. Un creato senza vita è anche evidentemente un mondo del tutto privo di sofferenza, un universo in cui il problema del male nemmeno si pone.
Ma potrebbe mai qualificarsi come il migliore dei mondi possibili?
NOTE
(1) Sostanza è termine aristotelico, di cui trovate una descrizione meno manualistica e, mi auguro, un po’ più intuitiva del solito in questo mio contributo sullo Zibaldino (https://www.aielli.org/2019/03/forma-e-sostanza.html).
(2) Per molte delle argomentazioni sulla Teodicea riportate nel testo sono debitore dell’ottima lezione tenuta sul tema da Gianfranco Mormino, disponibile su YouTube al seguente indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=YIVG3Mj7msI.
(3) “Newton e i suoi seguaci hanno un’idea molto ridicola dell’opera di Dio. Secondo loro Dio ha bisogno di caricare di tanto in tanto il suo orologio, che altrimenti cesserebbe di agire. Egli non ha avuto tanto accorgimento da imprimergli un moto perpetuo. Inoltre la macchina di Dio è, secondo loro, così imperfetta che Dio è costretto, di tempo in tempo, a ripulirla con un lavoro straordinario, e anche ad aggiustarla, come fa un operaio con la sua opera. Ma un operaio è un artefice tanto più inesperto quanto più spesso è obbligato a ritoccarla e a correggerla.” (Carteggio Leibniz-Clarke. Primo scritto di Leibniz, novembre 1715, in Scritti filosofici, vol. I, p. 300)
Al Liceo ho studiato filosofia quasi senza aprire il libro; mi bastavano le spiegazioni che ci dava il prof., il quale si soffermava molto su ogni concetto ed io avevo la possibilità di prendere appunti. Il Prof. si chiamava Inzerillo, era siciliano e rassomigliava ad Hitckock, il re del giallo.
RispondiEliminaLeggendo i tuoi post, mi sembra che il tempo non sia passato. Grazie Valter.
Chissà, forse anche nel mio caso dietro questa ritrovata passione si cela la nostalgia per i bei tempi del liceo. ☺
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