FORMA E SOSTANZA

FORMA E SOSTANZA

Esistono alcuni termini che rimandano alla tradizione del pensiero aristotelico, ma che nell'uso corrente hanno talvolta assunto accezioni distanti dalle intenzioni originarie. Visto che li uso di continuo, volevo spendere qualche riga per precisarli meglio.

Cominciamo allora approfondendo il significato del termine sostanza.
La sostanza è probabilmente il concetto centrale di tutta la filosofia aristotelica.
Peccato che sia anche uno di quelli il cui senso primigenio si è un po' perduto nell’italiano corrente.
In generale, ormai si sente parlare di sostanze quasi unicamente per indicare elementi o composti chimici,
i quali, essendo dei concetti universali generici (il rame, il piombo, l’acqua), non sono affatto sostanze per Aristotele
(o almeno non lo sono in senso primario).
Usando la parola in senso figurato, oggi si è poi soliti contrapporre la sostanza alla forma. Si parla infatti di aspetti formali come di connotati accessori rispetto al nocciolo di una data questione, che ne rappresenterebbe invece la sostanza. Ma le cose stanno veramente in questo modo?

La parola italiana che più ha conservato il significato originario di sostanza è il termine sostantivo, 
specie quando esso sia inteso come nome proprio di cosa o persona, e non come nome comune.
Come sappiamo, il nome proprio - Giovanni, Lucia, Fido, Principessa - nell’analisi logica della frase composta da soggetto e predicato nominale non si associa mai come predicato a un altro soggetto, e meno che mai si predica di un attributo, come una qualità o una quantità.
Il nome proprio si predica infatti solo di se stesso.
Diciamo Giovanni è Giovanni, Alfredo è Alfredo ma mai diremmo (a meno di non essere in un film di fantascienza in cui si pratichi la clonazione!) che Giovanni è Alfredo o Alfredo è Giovanni.

Il nome proprio è anche l’unico di cui si predichi l’esistenza per se.
La frase “Giovanni è” ha perfettamente senso, in quanto indica che esiste una persona che si chiama Giovanni.
Non ha nessun senso invece la frase “il bello è” o “il caldo è ”, senza ulteriori connotazioni, in quanto tali aggettivi non esistono di per se, ma solo come attributi di una data sostanza.
E poi no, caro Parmenide,  l’esistenza non si predica dell’essere, (e qui il matematico e logico Piergiorgio Odifreddi, con la sua solita veemenza d’argomentazione, ci va giù abbastanza duro) (1), come non si predica la corsa del correre, la bevuta del bere, la scrittura dello scrivere, perché questi sono verbi e non soggetti, ossia sostanze.

La frase “l’essere è”, ha quindi la stessa natura de “il correre corre”, “il bere beve”, “lo scrivere scrive”: puro nonsense.
Aporia questa puntualmente smascherata, già all’epoca, dai grandi sofisti (Gorgia, in particolare, se ne "fa beffe" nel suo trattatelo sul non essere). Poi Aristotele chiuse definitivamente la "questione dell'essere", sviluppando il concetto di sostanza. Tutto l'essere che c'è al mondo sta nelle sostanze. L'essere si dice infatti in molti modi, ma tutti in relazione alla sostanza.

La sostanza in Aristotele è quindi il puro soggetto, ciò che non si predica che di se stesso, e coincide in definitiva con tutte quelle singole entità cui avrebbe senso assegnare un nome proprio, un nome con la lettera iniziale maiuscola.
Non è quindi sostanza la statua o il quadro in generale, sono sostanze il Discobolo di Mirone e la Gioconda di Leonardo.
E sono ovviamente sostanze i singoli esseri viventi, uomo, donna, cane, gatto o pianta che siano.


Discobolo di Mirone (Fonte: http://zloris.blogspot.com/2011/12/atene-le-vestigia-del-passato.html)

Tutte quelle sopra elencate si dicono anche sostanze sensibili, in quanto possono essere percepite con i nostri cinque sensi: si vedono, si toccano, si ascoltano, si annusano. E per il momento ci fermiamo qui (la domanda se esistano sostanze soprasensibili, attingibili dall’intelletto umano ma non dai sensi, è infatti questione per metafisici). 

Che cosa si può dire per qualificare meglio queste sostanze sensibili?
Per Aristotele, come noto, esse sono un composto (sinolo, dal greco synolon, è il termine usato nei testi specialistici) di forma e materia.

La forma del Discobolo, come si vede nella foto, coglie l’atleta nel momento esatto in cui si inarca per prepararsi al lancio, e avendola vista una prima volta, tutti successivamente la riconosciamo al primo sguardo.
Qual'è allora la materia che, ospitando tale forma, concorre a identificare la statua di Mirone?
Elementare, diremmo noi subito: il marmo!
Ma si fa presto a dire marmo. Il Discobolo non è fatto di marmo astratto. La statua fu scolpita da un preciso blocco di marmo, che quindi aveva un suo specifico colore, una sua caratteristica porosità al tatto, delle venature uniche e irriproducibili. Colore, porosità, venature sono tutte caratteristiche formali.
Il materiale di cui è fatto il Discobolo non si qualifica quindi come pura materia, avendo già una sua precisa forma prima che lo scultore lo lavorasse.

Se infatti il Discobolo è certamente una sostanza, era sostanza anche il blocco di marmo da cui esso è stato ottenuto.
Non di marmo in generale si trattava, infatti, ma di quello specifico pezzo di marmo, a cui potremmo anche assegnare un nome proprio, visto l’enorme successo che ha avuto, e chiamarlo il “Marmo del Discobolo di Mirone”.

Il blocco di marmo aveva già un’esistenza autonoma prima di divenire statua. Con Aristotele diremmo che il blocco era il Discobolo in potenza, ma in atto era già qualcosa di determinato in se e per se: un bel blocco di marmo.
E come tutte le sostanze sensibili era quindi un composto; aveva la sua materia, ma anche una sua forma.
Ma qual’è quindi la materia prima di cui è fatto il blocco di marmo del Discobolo?

Oggi diremmo che si trattava di un certo insieme di molecole di marmo, che però sappiamo a loro volta essere costituite di atomi, che sono composti di elettroni, protoni e neutroni, i quali nemmeno rappresentano le vere particelle elementari, che sarebbero i quark. Ma siamo poi sicuri che i quark stessi siamo indivisibili?

Se ci si sforza di percorrere interamente il cammino a ritroso alla ricerca della materia primigenia di cui è fatto il mondo, ci si accorge che essa a poco a poco si dissolve, allontanandosi progressivamente prima dai nostri sensi e sfuggendo infine anche agli attuali, sempre più sofisticati, strumenti di osservazione e misura, per divenire un nulla di formato, che esprime unicamente la pura potenza di ricevere una forma, essendone totalmente privo in se. 

Per provare a dare un idea del concetto di materia prima, pensiamo a un ideale schermo per diapositive, 
un supporto talmente perfetto da non interferire minimamente con l’immagine proiettata, ad esempio alterandone la scala cromatica o distorcendone le linee. 
La forma dell’immagine visibile sullo schermo, una volta proiettata, ricalcherebbe quindi esattamente quella originariamente contenuta nella diapositiva. 
Lo schermo avrebbe l’unico scopo (si fa per dire) di renderla percepibile, ossia di attribuirgli un'esistenza sensibile.

Ma se la materia prima dell’universo è solo lo sfondo su cui il grande caleidoscopio - di cui s'è detto giorni addietro - proietta le sue immagini continuamente rinnovate, che senso ha parlare, come si fa oggi, di forma in antitesi alla sostanza?

La forma è sostanza. 

Ma se la forma è sostanza ed essa, come abbiamo visto, sotto certe condizioni, può essere carpita al sostrato materiale che la contiene, si aprono tutta una serie di interrogativi su cosa sia - alla fine della giornata - quella sostanza che più ci sta a cuore, ossia l’individuo, noi stessi, i nostri cari. E' quindi su questo sentiero che torniamo a inoltrarci ancora, quantunque il punto di approdo rimanga incerto assai.


(1) P. Odifreddi - Vite da logico 3 - Parmenide e il verbo essere. (https://www.youtube.com/watch?v=dlNPw46U0Vc) 

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