NUNZIATA

In diciotto anni durante i quali l’ho avuta, per modo di dire, sotto gli occhi, giorno dopo giorno, non ho mai saputo quale fosse il suo cognome, o la sua vera storia. La vedevo soltanto sull’uscio del suo fondaco, una sola stanza praticamente sulla strada, con i tre figli che le giravano intorno e il marito invalido, seduto su una sedia, dietro l’ingresso appena illuminato sul fondo buio della stanza; o che attraversava la via di corsa rincorrendo ragazzacci del quartiere che la molestavano, cosa per cui era motivo di risa per gli abitanti della via, eppure non ho mai avuto la curiosità di sapere chi era Nunziata, la povera mendicante che abitava in Via Trento e Trieste, a pochi numeri di distanza rispetto al portone sempre chiuso, di casa nostra che portava il rispettabile numero civico 33.

A makeshift home in a barraks
Anonymous, 1943-45
From: silver bromide gelatin/paper, 24x36 cm
Fondo Franco Cristofori – Cineteca di Bologna

Un’abitazione decorosa, la nostra, al primo piano della palazzina, fatta di parecchie stanze allineate una dentro l’altra, con una parte giorno e ed una parte notte, e, al centro, la camera da pranzo con divano per ricevere gli ospiti. Sopra di noi altri due piani, abitati rispettivamente da una vedova, la Sig. Ambrogi (di lei so solo il cognome), con il figlio Tonino, grande animatore di feste rumorosissime e la famiglia di un modesto barbiere, Carletto Arnoni, detto “Cucuccio”, figura caratteristica della zona, con la moglie Gemma, modista e due figli.

Erano tempi bui; il regime fascista imponeva una netta distinzione tra le classi sociali, da una parte i borghesi, più che altro, da noi, piccola borghesia fatta da funzionari della pubblica amministrazione, di cui facevamo parte da poco, perché il papà di nostro padre era contadino e dall’altra i proletari, sottoproletari, contadini e diseredati. La nostra via aveva rappresentanti di tutte le categorie, ma ognuno stava per conto suo. Era un mondo chiuso e noi ragazzi, vivevamo come sotto una cappa.

Penso che, data la varietà dei personaggi e della diversità delle condizioni sociali ed economiche fra di essi, concentrati in pochi metri quadrarti di agglomerato urbano, come era allora il nostro quartiere, un buon regista, con una permanenza anche di pochi giorni in quella via, avrebbe potuto fare un bel film, di quelli corali, che presentano uno spaccato di vita sociale, anticipando di qualche anno il cinema Neorealista, di Rossellini, De Sica ed altri, i quali hanno narrato di come era l’Italia dopo la guerra; il nostro, invece avrebbe potuto illustrare come essa era prima di quell’evento disastroso.

E se qualcuno di noi avesse avuto le capacità letterarie anche di un epigono, magari l’ultimo, di un Giovanni Verga, o Luigi Capuana, per non dire di Emile Zola, loro precursore, il romanzo che ne sarebbe potuto venir fuori, sarebbe stato di notevole interesse. Soprattutto, come dirò per la storia di Nunziata, degna di quel realismo, verismo o naturalismo delle più belle pagine della letteratura dell’epoca.

Brevemente accennerò alla variegata fauna umana che circondava in quei giorni i giovani ragazzi di Via Trento e Trieste n.33, vissuti con la benda sugli occhi nel covo della loro casa benestante (si fa per dire; il benessere era soltanto apparente e si notava nei confronti di quelli che stavano sicuramente peggio di noi). La rassegna è in ordine gerarchico di importanza (in linea con il tempo), partendo da quelli che stavano meglio di noi, passando a quelli che stavano come noi e finendo con quelli che se la passavano senz’altro peggio di noi.

Sulla stessa via, circa 200 metri di lunghezza, abitavano l’avv. Massignà, socialista, il dentista Nardi, il giornalista Marramà, socialista, il direttore didattico Giuseppe Aielli. Seguivano due bidelli scolastici, il primo si chiamava Pigliacampo, addetto alla Scuola di Avviamento al lavoro, che era situata proprio davanti alle nostre finestre, tanto che potevamo vedere gli studenti rumoreggiare nei banchi dentro le aule, l’altro Di Eugenio detto “il ficciuso”, dell’Istituto Industriale, che sorgeva a poca distanza; un commerciante titolare della concessionaria Guzzi per la vendita delle moto, di cognome Ciarelli, socialista; poi Mazza, uno dei primi autisti di piazza, con la sua fiammante Fiat Balilla, Giovanni s.n. il carrozziere, nel senso che aveva una delle ultime carrozze a cavallo per il trasporto pubblico; una cantante lirica, che tutte le mattine si esibiva in gorgheggi (non ho mai saputo che abbia calcato almeno una volta il palcoscenico); un mutatore Palucci, con moglie e tre figli, comunista; una lattaia detta “la lattarella”, ed infine la protagonista di questa storia, Nunziata, una figura allampanata, vestita di scuro, occhi duri, scarmigliata come una strega sulla pira, prima che prendesse fuoco, con la sua famiglia. Senza dimenticare Cucuccio, il barbiere che abitava nella nostra stessa palazzina.

Se da qualche parte esiste un Paradiso o un luogo qualsiasi dove si possa godere un po’ di pace nell’aldilà, Nunziata sarà certo in uno dei primi posti, perché credo che poche persone abbiano sofferto come lei nella vita. Voglio immaginare che, pur tra disagi e traversie varie, fino ad un certo punto la sua vita sia stata pressoché normale. Di umile origine, senza risorse sue, aveva sposato un uomo più anziano di lei che faceva il boscaiolo, dal quale aveva avuto tre figli, due femmine ed un maschio. Probabilmente il problema dell’alcool doveva essere preesistente al matrimonio, perché due di questi figli erano affetti da deficit mentali e comportamentali, mentre l’ultima, che era la seconda in ordine di nascita, era perfettamente normale.

Ma essa peggiorò notevolmente dopo l’incidente sul lavoro che il marito ebbe, fratturandosi una gamba con l’accetta, incidente a seguito del quale egli non fu più in grado di lavorare e divenne un personaggio del tutto inerte, dedito solo all’alcool ed a rimuginare. Aveva un orecchio smozzicato dai geloni e per questo era noto nella via col nome di “Mezzarecchia”; ma dopo l’incidente, dal quale non si riprese mai, con la poca sensibilità che si aveva e forse ancora si ha per le disgrazie altrui, per tutti egli divenne “Lu Ciupp” ed era oggetto di scherno con tutta la famiglia.

La povera Nunziata, che già prima cercava sollievo dalle gravi difficoltà che doveva affrontare facendo ricorso a qualche bicchiere di vino scadente, con il passar del tempo divenne sempre più tristemente alcoolizzata e le cose in famiglia andarono sempre peggio. Sinceramente non so come facesse a tirare avanti, perché nonostante tutto, riuscì a dare da mangiare ai suoi figli e al marito invalido. La povera donna divenne l’icona del degrado fisico e morale. Tra le altre cose, abituata ormai all’aria di sufficienza e sempre più spesso, all’aperta ilarità, da parte di coloro ai quali si rivolgeva per un aiuto umanitario, ricevendone un’elemosina il più delle volte misera ed umiliante, doveva guardarsi da torme di ragazzacci che arrivavano fin sulla soglia della sua abitazione-tugurio, per insultarla apertamente. “Nunzià, bianco o rosso?” era diventato il mantra con cui costoro nella loro crudele incoscienza, usavano provocarla, riuscendo ad ottenere una reazione scomposta da parte sua, che correndo dietro a loro con la scopa in mano, cercava di scacciarli, urlando fuori di sé frasi sconclusionate, condite di espressioni bizzarre, come “andate via, figli di pezzi di cul’ a pezze sfondati”, o altre oscenità del genere, cosa questa che era motivo di nuova ilarità, anche da parte dei passanti, dei quali nessuno interveniva a favore della poveretta.

Se non erro, all’epoca l’unica provvidenza per gente in questo stato era la sovvenzione dell’ECA, Ente Comunale di Assistenza, che elargiva generi alimentari a quanti facessero certificare dal Comune stesso lo stato di Miserabilità, attestato con apposito tesserino. Ma le stesse autorità non erano indulgenti verso coloro che versavano in condizioni di abbandono totale come questi poveri disgraziati.

Dei tre figli, Carmela, la maggiore, aveva un leggero deficit intellettivo, ma, se avesse avuto cure ed assistenza, avrebbe potuto essere recuperata per la società, come soggetto, diremmo ora, diversamente abile. Non era cattiva, solo molto ingenua e finì vittima di abusi, trascinando, anche da adulta, una vita miseranda di abbandono e degrado. Lo stesso è stato per suo figlio Vincenzo, che ha portato avanti la triste tradizione della famiglia alla terza generazione.

Ulderico, il fratello, aveva lo stesso handicap della sorella ed anche lui è stato a lungo lo zimbello dei ridanciani ed infami concittadini, fino a quando, prematuramente, è morto. L’unica uscita indenne da questa storia tragica è stata Graziella, l’altra sorella, una ragazza giudiziosa che come abbia potuto conservare la sua integrità in un simile ambiente, è un fatto miracoloso. Intelligente e solerte, frequentò le scuole elementari con ottimi risultati, poi cominciò a lavorare, sollevandosi dalla sua condizione. Con l’aiuto di una qualche associazione benefica, riuscì ad emigrare in Inghilterra e dopo qualche tempo sapemmo che si era sposata con un bravo giovane ed aveva messo su famiglia. Si parlò anche di aiuti materiali, arrivati dall’Inghilterra alla famiglia che aveva lasciato, dopo di che di lei non si è saputo più niente.

All’età di 18 anni, insieme alla mia famiglia, lasciai la mia prima dimora per un’altra più idonea e lo scenario di Via Trento e Trieste si allontanò dalla mia mente, fin quasi a scomparire. Sostituito da altri scenari ed altri personaggi, ma la svolta che questo ha dato alla mia vita, non è avvenuta senza qualche strascico e qualche rimpianto. Con il senno di poi, posso affermare che avrei voluto fare di più, conoscere meglio, influire sulla vita di quelle persone che allora incrociavano il loro destino, con il mio, che non riuscivo a vedere e tanto meno a decifrare. Ripassando ora, dopo tanti anni, da quelle parti, come ogni tanto faccio, quei luoghi un tempo tanto familiari, mi sembrano estranei, eppure sono rimasti quasi come allora: poche cose sono cambiate; il pesante portone di quella che fu la mia casa, è sempre quello ed è sempre chiuso. Poco più in là, l’antro che fu la casa di Nunziata e della sua famiglia, non c’è più, cancellata dalla via, con la sua storia, come se non fosse mai esistita. Al suo posto la vetrina di un negozio. In un angolo, dietro la vetrina, mi par di vedere un’ombra sfocata di donna, vestita di scuro, le spalle cadenti, la scopa per mano, il volto una maschera tragica, solo gli occhi sono vivi, lucidi, guardano disarmati e poi scompaiono. Qualcuno è passato davanti alla vetrina ed ha scomposto l’immagine.

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