I MIEI FIGLI

Lo potrei anche chiamare “LA DISCENDENZA 23”, perché mi accorgo che nel discorso che ho fatto intorno alle due famiglie originarie, quella di Fiorella e quella mia, dal cui incontro ha avuto origine la nostra, quella che ha per capostipiti mia moglie e me, non ho parlato affatto dei miei figli, che invece sono la ragione principale per la quale sto scrivendo questo blog. Perché all’origine di questa mia fatica era quello di creare un ambito letterario che facesse da terreno di coltura delle mie idee, da condividere con loro, come un piccolo “hortus conclusus”, quell’orticello, cinto da alte mura, nascosto agli occhi dei non addetti ai lavori, nel quale i monaci medioevali coltivavano per lo più piante officinali, alimentari e medicinali, badando all’utilità delle loro sostanze ed essenze e senza la ricerca di un effetto decorativo, come si addiceva a dei buoni frati, abituati ad un tenore di vita improntato alla frugalità e alla parsimonia, per la cura delle anime e la sanità dei corpi . Il che non impediva di prestare anche ogni cura alla tenuta della piccola vigna, per riempire ogni anno le botti di quel vino, buono per la messa, che fosse di ristorno (sì, proprio così, come di rimbalzo) dei fisici provati dalle fatiche, dalle astinenze e dalle preghiere.

Foto di famiglia (epoca e fotogr. scon.)

L’idea dell’orto recintato mi era venuta non per escludere, eventuali altri, desiderosi di partecipare, ma per includere quelli presenti e tenere ben stretti i contatti fra di noi. Con un colloquio pressoché quotidiano, che desse il senso della comunità, come avviene appunto con i frati, che hanno ognuno la propria cella, per meditare e riposare, horant et laborant insieme, si riuniscono in un’unica tavolata a pranzo ed a cena. La nostra mensa in questo caso sarebbe stata figurativa, allegorica, metafisica (no, scusate), metaforica!

Ma veniamo a noi, cosa dire dei miei figli? Tutto il bene possibile, naturalmente. Ma non ho voglia di mettermi a tessere le lodi dei miei figli, singolarmente presi, o in gruppo. Mi riservo di farlo in un’altra occasione, tanto i meriti di ognuno sono ben noti [oppure no, ndr.]. E non scappano. Vorrei soltanto accennare a qualche tratto particolare degli uni e delle altre, possibilmente attraverso un episodio, una parola, un gesto che possa immortalarli.

Giuseppe, il libertador, sdoganò le parolacce in famiglia (se ne sentiva proprio il bisogno). E non solo... ai fratelli: “ragazzi, da oggi si può pure fumare!”. E non era vero. Valentina subì il trauma più grande quando decise di tagliarsi i lunghi capelli. Stefano il buono, un giorno mi disse: ”io ce l’ho un grande dolore: mi si è rotto il vetrino dell’orologio che mi hai regalato al compleanno”. Federica la fantasiosa, era bambina, una sera, seduta sulle mie ginocchia: “Pà, vorrei volare lontano, lontano; con un calcio, bam! Volerei sulla luna”.
(1 - continua)

Commenti