LA DISCENDENZA 9

Eccoci dunque arrivati a parlare dell’ultimo rampollo o dovrei dire rampolla (1) se me la lasciate passare, visto che si tratta di una femmina, la più piccola delle sei sorelle. Si tratta di zia Nina (Gaetanina all’anagrafe), “la pescarese”, se non la più bella, la più appariscente fra tutte, con una personalità sviluppatissima, (come spesso avviene tra gli ultimogeniti che debbono vedersela con fratelli più grandi di loro), due occhi di falco ed una voce possente. Lei ragioniera, aveva sposato un romagnolo, come tale di sangue caldo, Giuseppe Guiducci, anch’egli ragioniere, il quale, per averla prescelta, doveva avere un carattere almeno altrettanto forte di lei. In effetti la loro unione fu salda, ma abbastanza turbolenta. Risiedevano a Pescara, a metà via Venezia in un bell’appartamento al terzo piano.

Gim Toro

Zia Nina era una smaliziata maschilista (ricordiamoci l’epoca che era sempre quella), non tanto perché difendesse i privilegi del genere, ma perché era amante delle caratteristiche maschili, specie quando si presentavano sotto l’aspetto dell’energia fisica e spirituale e della forte personalità (il maschio dominante) ed era evidente che lei soffriva di un complesso in tal senso, in quanto avrebbe voluto essere maschio. Zio Pino aveva un occhio leggermente strabico che gli dava un aspetto un po’ strano, con un sorrisino enigmatico tutto da decifrare; l’accento romagnolo e l’irruenza del parlare tipica del sangue caldo della regione di provenienza ne facevano un soggetto di grande interesse. Fumava due pacchetti di sigarette al giorno, ma solo nella stagione estiva; all’inizio dell’autunno, di colpo smetteva, per riprendere l’anno successivo, alla data prestabilita. A tavola prediligeva piatti forti, come la trippa, pietanza che mangiava solo lui; se la preparava e la condiva come sapeva lui, con molto olio, maggiorana, cipolle, formaggio parmigiano e peperoncino. Una volta all’anno si concedeva una vacanza da solo in una località termale. La meta preferita di solito era Sirmione con le grotte di Catullo ed a Catullo penso si ispirasse durante le cure. Si metteva “messo milione di lire” in tasca e partiva, con disappunto della moglie che lo aveva visto mettere in valigia lo smoking.

Con disillusione crescente, i coniugi Guiducci avevano visto nascere dalla loro unione la prima figlia femmina, Francesca, poi la seconda, Giulia ed infine la terza, Anna, fino a quando, a distanza di diversi anni dall’ultima, finalmente arrivò il maschio tanto desiderato al quale imposero il nome di Roberto e allora fu festa grande. La coppia si ritrovò nella figura di questo figlio, che divenne un po’ lo schermo dietro cui si nascondevano entrambi a seconda delle circostanze. Se per esempio Nina aveva comprato un cocomero nell’afosa estate pescarese, che intendeva portare a tavola il giorno dopo, fresco di frigorifero, Pino soffiava all’orecchio del figlio, ormai grandicello, “Roberto, c’è il cocomero!”. Questi cominciava a tempestare battendo il pugno sulla tovaglia che voleva il cocomero. La mamma teneva duro “il cocomero si mangia domani”, zio Pino ridacchiava sotto i baffi che non aveva, poi data l’insistenza del figlio, alla fine esplodeva “La Madonna, Nina, prendi ‘stò cocomero e facciamola finita, chè tanto si sa che il cocomero è la festa dei bambini!” e la moglie doveva cedere. Naturalmente il principale beneficiario della concessione carpita era lui stesso. Nina faceva la stessa cosa: se prima di rientrare a casa lei voleva un gelato (“lu gelatin’ d’ Francisc” avrebbe detto zia Gina, ma non so a quale proposito), di fronte al diniego del marito “è tardi, dobbiamo tornare a casa”, montava la lagna del figlio “sì, sì, anch’io voglio il gelato”, e Pino doveva cedere.

Un giorno eravamo in macchina con lui e la moglie, dopo un banchetto non ricordo per quale ricorrenza. Zio Pino, che aveva bevuto alquanto (non erano ancora entrati in funzione gli etilometri), armeggiava per inserire la chiave per la messa in moto. Zia Nina, impaziente, lo sollecitava a partire. “La Madonna, Nina un po’ di pazienza, non vedi che non riesco a trovare il buco?” Vittorio ed io ci sbellicavamo dalle risa. Lo zio si girò e ci fulminò con uno sguardo “il buco, sì, non trovo il buco della messa in moto, è in posizione molto scomoda. Ci volete provare voi?” e finalmente riuscì a partire con un sospiro di sollievo della zia.

Ma è ora che io vi dica delle mie care cugine di casa Guiducci, la prima, Francesca, aveva uno spiccato accento romagnolo preso dal padre, non era bella, ma appariva simpatica e di cuore tenero, mi guardava sempre con una specie di devozione. Quando avevamo già perso i contatti fra di noi, so che si era sposata ed aveva avuto dei figli. Era stata insegnante di lettere in un liceo di una città del nord. Giulia, biondissima come la madre, aveva gli stessi occhi azzurri, ma, al contrario della madre il suo sguardo era dolce. Riservata e silenziosa, ha anche lei avuto un buon destino con marito e figli che non ho conosciuto. Anna, la piccola, bruna con grandi occhi neri, si è trasferita a Montecatini ma non so più nulla di lei. Quanto a Roberto, allora avevo 18 anni, lui 6 o 7, in vena di generosità feci il grande sacrificio di regalargli l’intera collezione di Gim Toro (400 fascicoli rilegati in quattro volumi) che era stato il mio fumetto preferito e quella di Pecos Bill, di circa 200. Anni dopo gli chiesi se li aveva letti e se li conservava, sarei stato disposto a riprendermeli per ricordo, ma lui mi disse che non li aveva letti ed erano andati buttati. Era un bel ragazzo ed è diventato in seguito un bell’uomo, funzionario alla locale sede della FIAT, ha sposato una ragazza bellissima dalla quale ha avuto più di un figlio e vive ancora a Pescara. Ma i nostri rapporti si sono interrotti e non ci vediamo più da molti anni. Nel bell’appartamento di corso Venezia n.36 non abita più nessuno. Nell’elenco dei campanelli, figura però una scritta: “Giuseppe Guiducci, Dentista”. Sicuramente un figlio di Roberto.

Con rammarico dico queste cose, perché mi dispiace aver perso questo ramo della famiglia, dalla quale ho avuto molto ed alla quale ho voluto molto bene. Sono stato ospite gradito e riconoscente di quella casa più di una volta e per periodi abbastanza lunghi. Avveniva d’estate, nel corso della stagione balneare, su invito esplicito di zia Nina che aveva un debole per me. Avevo da poco raggiunto la maggiore età, o stavo per raggiungerla non ricordo bene, e la mia vacanza in quel nuovo ambiente mi appariva come un miraggio. Tutti i giorni andavamo al mare e stavamo in comitiva con gli amici e le amiche dei miei cugini. La sera lo zio mi invitava ad andare fuori, mi indicava lui dove, localini sul mare dove si ballava e si potevano fare incontri, mi riforniva di contanti e sigarette (“in queste circostanze si fuma” mi diceva comprensivo), mentre le figlie rimanevano rigorosamente consegnate in casa. Uscivo nella notte pescarese e la maggior parte delle volte non sapevo cosa fare. Quando tornavo a casa, le luci tutte spente, le porte delle camere chiuse, gli abitanti nel sonno, io cercando di fare il minor rumore possibile, ritrovavo a tentoni la porta della mia camera e mi preparavo per la notte. Non avevo finito di infilarmi il pigiama, che sentivo bussare sommessamente contro la parete della stanza dove dormivano le ragazze e alla mia risposta, zitte zitte, una per volta entravano in camicia da notte nella mia stanza e sedevano chi a destra, chi a sinistra, l’ultima ai piedi del letto e mi chiedevano invidiose di raccontare tutto quello che avevo fatto fuori. Era un gran parlottare, scherzare maliziosamente, in certo qual modo flirtare in un modo che mi eccitava molto ed anche loro erano su di giri. Non di rado avveniva che sul più bello piombasse in camera zia Nina che con fare severo, ma senza alzare la voce per non svegliare il marito e imponesse alle fanciulle in fiore di rientrare immediatamente in camera loro.

La domenica mattina era riservata alle grandi pulizie. Eravamo mobilitati tutti, anche lo zio che anzi dirigeva i lavori e con scope, stracci e ramazze, dovevamo passare al setaccio tutta la casa. La notte della festa di San Cetteo, il Patrono di Pescara, tutti fuori, a vedere i fuochi di artificio sul mare. Un vero spettacolo pirotecnico. L’ultima cascata di faville luccicanti si spegne in mare e l’aria si fa cupa, ancora scossa dalle ultime detonazioni che l’hanno squarciata nel buio. Un vuoto nel tempo.



(1) In realtà “rampolla” significa un’altra cosa, tipo una sorgente d’acqua che “rampolla” dalla terra, ma il “rampollo”, sostantivo maschile indica il discendente di una casata nobile. Ironicamente si dice per il figlio o la figlia di modesti natali, che però dimostri di avere un certo carattere “tosto”. Quindi è particolarmente indicato per il caso in questione per quello che dirò.

Commenti