LA DISCENDENZA 7

Ho detto di zia Stella e zio Berardo, ma i ricordi incalzano mano a mano che vado avanti, per cui mi riprometto di riportare l’attenzione su di loro, come pure sugli altri personaggi che compaiono in questa rassegna, alla fine, quando farò una ricapitolazione di tutta la materia, prima di chiudere il libro della memoria.

Foto d'epoca La nonna Rita   .
                                                    
Ora, invece vorrei intercalare, cioè inserire tra un capitolo e l’altro dedicati ai protagonisti di età più avanzata, il discorso sui cugini, che rappresentano la seconda generazione, quella alla quale appartengo anche io. I quattro figli maschi della famiglia Parmegiani, i quattro dell’Orsa Maggiore, rappresentavano per me e per mio fratello Vittorio un esempio fulgido al quale uniformarsi e nel contempo una sfida, perché nel confronto, amichevole finché vuoi, non bisogna mai cedere. E più era l’ammirazione, più la voglia di eguagliarli. Nessuna chance ci era consentita con Marcello, il più grande, che aveva qualche anno più di noi ed una corporatura atletica notevole, con muscoli ai bicipiti molto sviluppati, che erano il suo orgoglio e gli assicuravano una supremazia assoluta nei nostri confronti. Per fortuna nostra, Marcello faceva impressione ma non mordeva, anzi era un tipo molto calmo e riservato, addirittura timido al di sotto della scorza e aveva il timore di apparire ridicolo agli occhi degli altri, per cui cercava di evitare luoghi affollati dove sentiva gli occhi di tutti puntati sulla sua persona, in attesa che gli capitasse qualcosa che lo esponesse a fare una brutta figura. Nel qual caso la sua reazione sarebbe stata terribile.

Con me aveva un rapporto di amicizia e stima reciproche, ma non concordavamo quasi su niente. In politica amava definirsi reazionario, per finta; leggendo i titoli sui giornali, erano i giorni della Grande Marcia di Mao alla conquista della Cina e poi del mondo, diceva sprezzante: ”Cosa vogliono questi cinesi? Che siano schiacciati!”. Però subito dopo scoppiava in un riso autosfottente. Se parlavamo di un film, metti “La Ciociara” di Vittorio De Sica, dal libro di Alberto Moravia, con la splendida Sofia Loren nel fiore degli anni maturi, egli era sempre di parere contrario e quando si sentiva alle strette per un ragionamento stringente al quale non sapeva quale argomento opporre, se la cavava, dicendo: ”Basta non voglio parlarne più” e si chiudeva nel silenzio. Appassionatissimo di boxe, ci invitava, me e mio fratello, a vedere a casa sua i primi incontri trasmessi in TV, al tempo in cui noi non avevamo ancora un apparecchio televisivo. Prima di cominciare ci salutava, dandoci la mano: “Arrivederci, grazie per essere venuti. Io, quando mi stanco e mi viene sonno, mi alzo e vado via, quindi vi saluto ora per non disturbare.” E si sedeva davanti all’apparecchio come se nulla fosse.

Antonio, il secondogenito, era mio coetaneo e quindi eravamo molto amici. Aveva ereditato molte delle qualità del padre, una presenza notevole, uno spirito gioviale, la battuta pronta e il piacere del mangiare, anche alla buona. “Pensa Brù” mi diceva “ci pensi quanto sarebbe bello farsi una bella mangiata di mortadella, tagliata a fette spesse, non come fanno di solito?”. Per questa sua caratteristica era il beniamino della casa e il pupillo di zio Berardo. Quindi maggiore fu il dolore del padre, della madre e dei fratelli, oltre che il nostro, quando all’età di quattordici anni, contrasse una infezione da meningite e, dopo alterne vicende in cui parve anche che fosse guarito ed in effetti riprese la sua vita normale, non molto dopo, a seguito di una ricaduta, morì fra la disperazione di tutti.

Walter era un ragazzo modello. Mite, bonario, arguto ed intelligente, era amato da tutti. Salvatore, il più piccolo, è stato l’unico della famiglia che ha seguito le orme del padre nel campo della musica. Diplomato pianista, ha svolto però attività di insegnante della scuola media superiore.

Sono partito dai quattro dell’Orsa Maggiore; ho detto dell’amore, dello spirito di competizione, della difficoltà di andare d’accordo con loro o fra di noi. Chiudo con un ricordo che potrei dire degno dei quattro o cinque dell’Orsa Minore e vi spiego perché. Si era in estate, tempo di vacanze appena iniziate. Mio fratello cadde ammalato con una malattia che nessun medico riusciva a diagnosticare. Si sapeva soltanto che era sicuramente contagiosa ed allora si pensò in famiglia di allontanare me che ero quello che correva maggior pericolo di contagio. L’approdo più felice fu individuato in un soggiorno mio a casa dei miei cuginetti Marcello, Antonio, Walter e Salvatore, con i quali avevo maggiore dimestichezza. Chiesta ed ottenuta l’ospitalità da parte dei miei zii, feci la valigia e mi trasferii in casa Parmegiani. Tutti concordavano sul fatto che essendo cinque maschi, saremmo andati in perfetto accordo e che il mio esilio sarebbe stato allietato dalla compagnia dei cari cugini.

Erano le prime ore del mattino; in casa eravamo soltanto noi cinque, gli zii fuori a lavorare, sarebbero rientrati all’ora di pranzo. Avevamo un tempo infinito per i nostri giochi ed una casa con un lungo corridoio e parecchie stanze, più che sufficiente per qualsiasi tipo di gioco. Tutto cominciò in sordina, in realtà la condizione nuova nella quale ci venimmo a trovare, non ci si addiceva. Troppo spazio, troppo tempo, troppi maschi e nessuna idea su cosa fare. Cominciammo quindi a farci degli scherzi. Marcello mostrava i muscoli delle braccia e “faceva voci”, noi altri come quattro scimmiette cercavamo di imitarlo. Burle, prese in giro, fino a quando fu detto qualcosa di offensivo, almeno per alcuni. I quattro fratelli fecero quadrato, io mi trovai solo. Reagii come meglio potei. Loro prendevano non so che di mio ed io li rincorrevo. Si beffavano di me con rapidi passaggi e fughe di stanza in stanza. Non riuscendo ad avere la meglio, data la manifesta inferiorità, mi ritenni in diritto di ricorrere a mezzi estremi. Afferrai una spazzola e minacciai di scagliarla contro l’ultimo che era entrato in possesso di quel non so che di mio e gli ordinai di fermarsi. Al suo rifiuto scagliai l’oggetto e lo colpii in testa, giusto nel riquadro della porta dietro cui stava scomparendo. Il gioco si arrestò immediatamente e noi rimanemmo senza parole. In realtà il danno non era poi così grave, almeno dal mio punto di vista. Un semplice bernoccolo, nemmeno tanto grande. Decisi comunque che l’esilio era finito. Meglio il rischio del contagio che una permanenza indesiderata in campo avverso. Fatta la valigia, me ne tornai da solo a casa, fra la costernazione dei miei e più tardi degli zii che non riuscivano a spiegarsi l’accaduto.

Commenti