LA DISCENDENZA 6

Olga sposò felicemente quel giovanottino venuto da Città Sant’Angelo per partecipare al concorso magistrale durante il quale si conobbero. Fu amore a prima vista e si sposarono dopo non molto tempo. Se di mio padre ho cercato di immaginare la vita pre-matrimoniale, la brillante carriera scolastica, il paese, i compagni, l’influenza di un insegnante benemerito che si adoperò verso suo padre (mio nonno) affinché il ragazzo continuasse gli studi e poi gli ardori giovanili patriottici che lo portarono a fare scelte rivelatesi poi ingannevoli, di mia madre, da ragazza, l’unica immagine che ho è quella che mi sono fatta, a sentire i racconti di quando usciva insieme alle sorelle, inquadrate per due, con la nonna e la zia che chiudevano la colonna, e niente altro. In quell’austero gineceo possiamo immaginare un’atmosfera simile a quella di “Piccole Donne”, il film tratto dal fortunato romanzo omonimo di quell’epoca, che fece conoscere (ma non credo che le sorelle Bernardi a quel tempo andassero al cinema), il talento straordinario della giovanissima (otto anni) Elisabeth Taylor, divenuta poi un’icona della c.d. “fabbrica dei sogni” di Hollywood, soprattutto per i numerosi matrimoni.

Zio Nicola


Insieme a Giuseppe, Olga "sposò" anche sua sorella Gina, la quale fu chiamata a dare una mano in famiglia, visto che entrambi i genitori svolgevano il lavoro di insegnante e la prole, dopo la nascita di Rita, aumentava al ritmo di un figlio ogni due anni o giù di lì, fino al numero di cinque (il sesto purtroppo fu vittima di un aborto spontaneo). Ma della mia famiglia mi riprometto di parlare più diffusamente in seguito. Ora voglio continuare con l’inventario dei ricordi relativi agli altri componenti della famiglia di mia madre.

Ho detto della dolorosa esperienza di Elvira, la primogenita, donna severa e caustica a buona ragione soprannominata dalle sorelle la prefetta, la quale dopo lo sfortunato matrimonio con Giosafatte, fu riaccolta nella casa paterna ed entrò a far parte della triade che imperava sul palazzotto di Don Rodrigo, le cui due punte di forza erano rappresentate da Anzino e la nonna e la terza fu assunta da lei in posizione intermedia. Delle altre sorelle, tutte dotate di personalità e caratteri accentuati, in realtà non ho molto da dire, in quanto le loro persone appaiono nella mia mente, fuse in stretta simbiosi con quelle dei rispettivi mariti, i quali avevano tutti una personalità spiccata, ognuno per suo conto, in modo diverso dagli altri. Parlerò quindi delle coppie, accennando a qualche particolarità dell’uno o dell’altra componente.

Stella andò in sposa ad un brillante giovane geometra, Berardo Parmegiani, che occupava un posto di rilievo nell’ambiente cittadino, in quanto, figlio di un artigiano orologiaio molto stimato, svolgeva la funzione di Comandante dei Vigili Urbani, un corpo composto da circa dieci uomini.

Zio Berardo, di fisico robusto (pesava circa centodieci chili, ma non era grasso - “se un uomo non fa un quintale almeno, che uomo è?” soleva dire), allegro, gioviale, con la battuta sempre pronta, sul lavoro era severo ed irreprensibile, comandava con autorità i suoi militi, a lui devoti, addetti al controllo della regolarità dei mercati, al rispetto della legge in città ed al regolare svolgimento del traffico automobilistico, per la verità non eccessivo a quei tempi. La zia Stella, diplomata, era invece una stimata funzionaria del locale Ufficio del Pubblico Registro Automobilistico. Quattro figli maschi, nell’ordine Marcello, Antonio, mio coetaneo, Walter e Salvatore, erano i nostri compagni più assidui di giochi e scappatelle. Che dire dell’indimenticabile zio Berardo? Aveva soltanto tre vizi: le donne, il buon cibo - la crapula - e la musica. Per un certo periodo di tempo fece parte in qualità di primo violino nella locale orchestra sinfonica, diretta dal maestro Arnaldo De Angelis.

Niente di memorabile da trascrivere per il primo punto, le donne. Da buon maschiaccio all’italiana, si lamentava con la moglie che lo accusava di averla tradita in più occasioni, dicendo: “Cosa ho fatto di male? Mi sono prestato per bontà d’animo a tappare qualche buco qua e là, nient’altro!”. Ma credo che neanche di questo si trattasse. Dati i tempi, pura millanteria. Dove invece eccelleva senza dubbio erano le due altre specialità, le lunghe sedute a tavola e la musica. Non era infrequente che l’un piacere sfociasse nell’altro e in compagnia delle stesse persone, essendo tutti componenti di una combriccola ben affiatata, egualmente amanti dell’uno come dell’altro piacere. Il maestro De Angelis infatti, che era anche pianista, e il professor Dante Valentini, flautista, erano sempre presenti anche alle riunioni conviviali e così anche altri. Poteva così capitare che dopo un lauto pranzo il gruppo si riunisse, magari in formato ridotto, diciamo così “da camera” e cominciasse a suonare. In dette condizioni, era possibile che i vari strumentisti non dessero il meglio di sé, leggi che, per esempio, il primo violino prendesse una stecca clamorosa, allora il direttore, per non richiamare direttamente lui, col quale aveva un rapporto di amicizia molto stretto, fermava l’esecuzione e, senza guardare direttamente l’interessato, prorompeva: “Dico a uno e dico a tutti…qua bisogna che stiate attenti a non stonare”.

La passione per la convivialità si poteva esprimere in ogni circostanza. Ragguardevole fu l’occasione dell’inaugurazione della linea ferroviaria Pescara-Roma (che passava per il paese che si chiama Aielli, come me); il gruppetto dei più fedeli di ritrovò in uno scompartimento del treno pavesato per la cerimonia e qualcuno ebbe l’idea di chiedere se, in attesa della partenza, non fosse il caso di mettere qualcosa sotto i denti. Allora si scoprì che tutti avevano avuto l’idea di portare qualche cosina per rintuzzare i morsi della fame durante il viaggio. Ognuno mostrò la propria ‘‘mappatella” e chi una frittata di venti uova e chi una cinquantina di polpette e chi un tacchino alla canzanese, un timballo ecc.

- Assaggiamo qualcosa prima di partire?, fu la richiesta spassionata di qualcuno.
- Ma sì, facciamo colazione, intanto che il treno si metta in moto.

Il banchetto cominciò con piccoli assaggi, ma ben presto si trasformò in un gioioso magna-magna. Furono tirati fuori anche fiaschi di vino ed altri ingredienti per rendere la circostanza sempre più briosa. Conclusione: sul più bello dell’appetitosa “colazione”, senza che i commensali si rendessero conto che il treno era partito, un controllore bussò alla porta dello scompartimento, annunciando che il viaggio era finito. Erano arrivati a Roma in un tempo che a loro era sembrato brevissimo.

Indubbiamente però i banchetti organizzati riuscivano ancora meglio. I posti che di volta in volta si intendeva omaggiare con la presenza del gruppo, in virtù della fama già acquisita, erano le trattorie, di cui all’epoca si faceva menzione come favolose cucine d’altri tempi, con rarità culinarie e ricercatissime ricette locali, con insegne famose, ormai cadute nell’oblio, come la Trattoria Tamburr’, Il Covo dei Bracconieri, Le sette Vergini (sic!), Il Becco Giallo, Lo Zoppo, ed altre di cui mi sfugge il nome.

Tamburr’ era il posto delle lumache, ciammariche in golosità vernacola, che venivano raccolte in abbondanza dopo le prima piogge di maggio. Una commissione era addetta a fare i primi assaggi, per passare la parola quando il tempo era maturo ed allora si stabiliva la grande mattanza. Proverbiale fu un’abbuffata in quattro intorno ad un tavolo, presiedeva il Comandante. Un vicino di tavolo riferì che durante tutto il pasto, tra i quattro non fu proferito verbo, ma solo mugugni di gradimento. "Alla fine", ricordava con nostalgia uno dei partecipanti, "eravamo così pieni che non riuscivamo nemmeno a girare il collo".

Povero zio Berardo; prima di morire compilò una lista delle pietanze che voleva riprovare per un’ultima volta. Non so fino a che punto gli fu concesso di raggiungere il suo intento.

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