LA DISCENDENZA 3

Mio padre conseguì il diploma di insegnante elementare presumibilmente nel 1922, anno della Marcia su Roma di Mussolini e presa del potere da parte dello stesso e data di partenza della c.d. Era Fascista. Aveva 19 anni e partecipava attivamente alla vita politica, insieme ad altri studenti e giovani diplomati che costituivano le leve della “intellighentia” del paese.

Molti giovani intellettuali all’epoca furono attratti dall’ideologia fascista che prometteva ordine e giustizia sociale rispolverando la retorica dei miti risorgimentali, ancora molto sentiti, anche perché alimentati a dismisura nelle aule scolastiche, contro il disordine e la confusione che si erano generati sull’onda dell’insoddisfazione conseguita alla fine della prima guerra mondiale, soprattutto da parte dei reduci tornati dal fronte che non trovavano lavoro e per l’acuirsi delle tensioni sociali. La forte personalità di Mussolini, direttore dell’Avanti, che da socialista annunciò la rivoluzione fascista, fece da catalizzatore di molte menti che si lasciarono trascinare verso il baratro della dittatura, nella quale si cominciò a scivolare fin da subito, con modalità dapprima morbide, poi via via sempre più stringenti.

Colonia marina abbandonata (Ravenna) - 2012

Presumo che sia stato intorno ai primi anni di quella sedicente Nuova Era, che il giovane Giuseppe Aielli, classe 1903, di Saverio e di Rita D’Isidoro, che aveva preso parte alla “Marcia”, conobbe la si.na Olga Bernardi, in occasione di un concorso a cattedra che si tenne Teramo, al quale entrambi parteciparono con esito favorevole. Giuseppe divenne titolare di una cattedra a Gessopalena, ma mantenne il contatto con Olga, la quale era rimasta favorevolmente impressionata dalla baldanza del giovane di belle speranze venuto da Città Sant’Angelo, che dopo qualche anno chiese ed ottenne il trasferimento a Teramo. La data del matrimonio risale probabilmente al 1930/31. Nel 1932 nacque la prima figlia, Rita. A seguire, ogni due anni circa, nell’ordine, Myriam, Bruno, Vittorio e Maria Gabriella.

Dopo aver vinto anche un secondo concorso, questa volta a Direttore Didattico, la sua posizione cambiò sensibilmente. A questo punto il giovane ribelle che credeva nel riscatto delle classi più deboli, si era già trasformato in un borghese, con ciò immaginando forse che l’unica trasformazione possibile fosse quella che passava attraverso le gerarchie. Ed il distacco dalla sua famiglia proletaria divenne fatale. Appartenevano a due mondi diversi; non rinnegava le sue origini, ma nemmeno se ne sentiva debitore.

Caro padre, siamo ormai giunti alla fine di questa storia ed è ora di dirci quello che non ci siamo detti nella nostra vita mortale, ora che anche io sono sulla soglia della verità, diciamo così, tu puoi darmi conto se posso aspettarmi qualcosa o niente.

Ci siamo voluti bene ma non siamo mai stati intimi. Tu non mi hai detto nulla di te, di quando eri giovane, di quali erano le tue speranze e aspettative ed io ho sofferto dei tuoi silenzi che in parte capivo ma mi dispiaceva non sapere niente di te, quali erano i tuoi ideali, cosa ti piaceva e nello stesso tempo non ti ho chiesto, non ho cercato di sapere, tra me e te la distanza è rimasta, anzi è cresciuta con la tua malattia. Mi sentivo inadeguato e pensavo che tu conoscessi la mia inadeguatezza. Volevo aprirmi, ma non ho mai fatto un passo nella tua direzione. Mi sarebbe piaciuto conoscere le tue idee, i tuoi crucci, le tue insoddisfazioni, le tue disillusioni, i tuoi rammarichi. Avremmo potuto parlare di tutto, di cose belle e di cose brutte, cose da fare e cose da non fare.

Oggi sto qui a dire di te, ma mi accorgo che mi manca qualcosa. Dobbiamo aprire un capitolo doloroso che è quello della tua adesione al fascismo. Da sconfitto, perché non hai provato a parlarmene? Avrei capito. So che ogni azione va inquadrata nel suo contesto storico e nessuno può trarre conclusioni senza calarsi nella realtà di un determinato periodo. Sono così rimasto all’oscuro di ogni motivazione e non ho ancora trovato la chiave per aprire quella porta. Prova ad aiutarmi tu. Ispirami. Non può essere che tra padre e figlio non si possa dire tutto, anche se fa male. Tu sai che il mio giudizio su di te è incondizionatamente positivo e non solo perché tu sei stato un padre eccezionale e io ti ho voluto bene. La tua vicenda umana io l’ho capita, ma perché non me ne hai mai parlato? So che tutto quello che tu hai fatto o non fatto, è dipeso da noi, la tua famiglia. So che i tuoi sogni di gioventù sono stati traditi. So che iniziata la china, non ti sei più potuto tirare indietro e sei stato trascinato nel buco nero della storia.

Sarebbe troppo facile giudicare col senno di poi ed io non sono qui per questo. Sono qui per ritrovare te, per sentire dalla tua voce quello che mi aspetto di sentire. Che la contingenza nella quale ti sei trovato non ti ha consentito di uscirne meglio. Che hai pagato per le colpe degli altri, di quelli che durante il fascismo ti accusavano di disfattismo o comunque di poco entusiasmo e poi, dopo la sua caduta, si sono riciclati ed hanno continuato a fare i loro interessi, divenendo campioni di antifascismo. Tu almeno sei stato coerente. Ti sei lasciato affondare con la tua nave. Ma non hai mai preso parte alle nefandezze che si sono commesse durante gli ultimi anni della guerra.

Parlami, padre, dimmi quello che avevi nel cuore, dimmi il dolore che hai provato quando hai visto che il castello che ti eri fatto cadeva a pezzi da tutte le parti. Ma soprattutto dimmi della discendenza, di quello che eri, che siamo, tu e io, con tuo padre, tuo fratello, le tue sorelle. Dimmi che c’è un legame che ci unisce, che siamo stati separati ma che ora siamo insieme. Dimmi che se anche di là non c’è niente, noi uniti vorticheremo nel vuoto come quei paracadutisti che si lanciano dagli aerei senza azionare il paracadute e nel vuoto si prendono per mano e formano dei cerchi che precipitano verso il basso.

Non mi importa se tu non ci sei più e da tanto. So che da qualche parte qualcosa di te ascolterà questa supplica e farà in modo di esaudirla.

A presto caro babbo; se ci incontreremo, sarà con il cuore leggero e senza remore di sorta. E tu finalmente mi aprirai gli occhi. Ti chiedo perdono per avere riaperto una ferita. So che tu mi hai amato ed io amo te e sono fiero di essere tuo figlio.


Mia madre era la classica figlia di famiglia appartenente alla c.d. piccola borghesia, quella che costituiva una costola importante della burocrazia statale del primo novecento. Suo padre (non ho mai saputo il nome del nonno, che era già deceduto quando sono nato, terzogenito della famiglia) era stato Ufficiale Giudiziario e la madre, nonna Elisabetta, all’anagrafe Betsabea Di Domenico, donna di casa capace di un’energia formidabile, aveva portato avanti da vedova con la sola risorsa di una piccola pensione di reversibilità e l’aiuto di quella che noi nipoti chiamavamo zia Annina, una sorella del nonno deceduto, che le fu sempre a fianco, una famiglia formata da sei figlie femmine e due maschi, impresa non facile, irta di mille difficoltà, ma portata a termine con dignità, autorevolezza e ottimi risultati: ad eccezione della prima figlia, Elvira, le altre (Ilda, Olga, Stella, Dora e Nina) ed i due maschi (Anzino e Remo), diplomati e occupati convenientemente.

Le sorelle Bernardi erano note nell’ambiente cittadino; quando uscivano a passeggio, in fila per due, a seconda dell’età o dell’affinità seguite in coda dalle guardiane (la nonna e la zia Annina) che seguivano subito dietro, la gente diceva “Passa il collegio Bernardi”. Naturalmente era tutto un ammiccare da parte di giovani spasimanti e vezzeggiamenti da parte delle ragazze, che di sottecchi assistevano divertite e compiaciute alle dimostrazioni di ammirazione da parte di essi.

(3. Continua)

Commenti