LA DISCENDENZA 2
Un’altra specialità culinaria della nonna erano le “scrippelle” che altri volgarmente chiamano “crepes”, di cui lei era capace di approntarne in poco tempo una pila alta così, nonostante io ne mangiassi man mano che lei le spadellava. Povera nonna. Una sera a cena avevamo pane e frittata e siccome a me piaceva mangiare la frittata senza pane, mi ingegnai a mangiare prima la grossa fetta di pane, poi, quando mi accingevo ad addentare l’agognata frittata, ecco la nonna: “Ma guard ‘stu’ pover citl’ stà a magnà la frittit senza pan!” e premurosa me ne taglia subito un’altra fetta più grande della prima.
Ricordo che tornato a Città S. Angelo, molto tempo dopo, la nonna non c’era più. La casa era stata rimodernata, ma tutto mi sembrava più freddo. Nella mia incoscienza giovanile non avevo memorizzato l’evento della sua morte. E sì che non ero più un bambino.
Tornando a quei tempi, ricordo che i materassi dei letti nella casa dei nostri nonni a Città S. Angelo erano in realtà grossi sacchi riempiti di foglie secche di granturco, che di notte, quando uno si girava nel letto, frusciavano in un modo che per le nostre orecchie di bambini di città, abituati a ben altri agi, costituiva una novità tutt’altro che sgradita. La cosa ci faceva sorridere ed alimentava i nostri sogni.
Se capitava di notte di dover soddisfare un’urgenza fisiologica, bisognava andare nella cantina sotto casa e scendere nell’antro. Non di rado capitava che uno dei nostri zii (Luigi o Antonio), facesse uno degli scherzi preferiti per mettere alla prova il nostro coraggio, che era quello di spegnere la luce dall’interruttore principale, così da farci rimanere al buio sul più bello. Allora noi, entrando, avevamo imparato ad accendere una candela che era lì per l’emergenza, in modo da poterci orientare per uscire. Non senza un po’ di adrenalina addosso, ma facendo mostra di grande coraggio.
Zio Luigi era il fratello minore di mio padre, quello al quale toccò in eredità il duro mestiere del nonno, coltivare l’esigua proprietà terriera per mantenere la famiglia; senza dubbio soffrì della differenza di trattamento riservata al fratello maggiore, al quale era stata data l’opportunità di proseguire negli studi e sollevarsi da quella condizione di minorità. Ma con noi cercava di non darlo a vedere, mentre nei rapporti con nostro padre era sempre contenuto, quasi imbarazzato. Noi ragazzi gli volevamo molto bene, perché era buono e paziente.
Aveva un gran senso della moralità e dell’onestà ed un sentimento profondo di religiosità, unico della famiglia che io ricordi. La domenica andava al bagno pubblico per un’abluzione totale, poi dal barbiere a farsi bello ed infine si vestiva di tutto punto con l’abito buono, sempre lo stesso, sia d’inverno che d’estate, camicia pulita e cravatta sgargiante per andare a messa alla cattedrale, nell’ora di punta, e non si lasciava distogliere da questo programma per nessuna cosa al mondo. Gradiva che noi lo accompagnassimo, ma dovevamo avere un comportamento molto corretto, niente risolini in chiesa. Non dimenticava mai di raccomandarci l’importanza di avere la fede e quando parlava di ciò, gli occhi gli luccicavano.
Zio Luigi aveva un cucchiaio personale, al quale teneva particolarmente. A tavola voleva sempre quello e non era disposto a darlo a nessuno. Era un cucchiaio in acciaio, di fattura elegante, con un marchio del regio esercito. Era successo che, salendo sulla passerella della nave sulla quale si doveva imbarcare a Palermo con la truppa in partenza per l’Africa Orientale, affardellato com’era con zaino, sacco, giberne e fucile, il cucchiaio di stagno che aveva avuto in dotazione con la gavetta d’ordinanza, cadde in mare ed egli fu costretto, suo malgrado, a commettere una trasgressione: appena sistemato con i suoi commilitoni nella stiva a loro riservata, uscì subito in perlustrazione e passando per caso dalle parti dove vide apparecchiata la mensa degli ufficiali, rubò da un tavolo un cucchiaio che divenne il suo portafortuna. Quando fu rimandato in Italia e congedato, dovette denunciare la perdita del cucchiaio, ma nascose ben bene quello che aveva sottratto al regio esercito, intendendo conservarlo per ricordo.
In ospedale, a Teramo, per un intervento alla prostata, lo andai a trovare; era in camerata in compagnia di alcuni altri degenti che lo sfottevano dicendogli che ormai il suo attributo maschile sarebbe servito solo per urinare, egli sorridente rispondeva pacato di avere fede che prima o poi la cosa si sarebbe risolta favorevolmente.
Dopo essere rimasto una vita nella casa paterna, insieme alla famiglia della sorella Gaetana, con il marito Antonio e tre figli, nell’ordine Giovanna, Rita e Gabriele, giunto ormai alla soglia della terza età, decise di sposarsi e mettere su casa per conto proprio. La moglie, Maria, era una donna di condizione modesta, che aveva svolto attività di ricamatrice. Questa decisione però creò inaspettatamente una discrepanza con il resto della famiglia che non approvò le sue scelte. Luigi con molta dignità sopportò la separatezza che così si venne a creare soprattutto con la sorella e per il resto ebbe una vita tranquilla, seguitando a fare quello che aveva fatto fino ad allora.
Quando la moglie morì, rimase solo. A sua volta cessò di vivere una sera, per strada, mentre faceva una passeggiata lungo una via panoramica che girava intorno al paese. Si arrestò di colpo e cadde a terra senza vita.
(2. Continua)
Tortellini Aldo Ferrari 1950-51 From: silver bromide gelatin/film 6x6 cm |
Ricordo che tornato a Città S. Angelo, molto tempo dopo, la nonna non c’era più. La casa era stata rimodernata, ma tutto mi sembrava più freddo. Nella mia incoscienza giovanile non avevo memorizzato l’evento della sua morte. E sì che non ero più un bambino.
Tornando a quei tempi, ricordo che i materassi dei letti nella casa dei nostri nonni a Città S. Angelo erano in realtà grossi sacchi riempiti di foglie secche di granturco, che di notte, quando uno si girava nel letto, frusciavano in un modo che per le nostre orecchie di bambini di città, abituati a ben altri agi, costituiva una novità tutt’altro che sgradita. La cosa ci faceva sorridere ed alimentava i nostri sogni.
Se capitava di notte di dover soddisfare un’urgenza fisiologica, bisognava andare nella cantina sotto casa e scendere nell’antro. Non di rado capitava che uno dei nostri zii (Luigi o Antonio), facesse uno degli scherzi preferiti per mettere alla prova il nostro coraggio, che era quello di spegnere la luce dall’interruttore principale, così da farci rimanere al buio sul più bello. Allora noi, entrando, avevamo imparato ad accendere una candela che era lì per l’emergenza, in modo da poterci orientare per uscire. Non senza un po’ di adrenalina addosso, ma facendo mostra di grande coraggio.
Zio Luigi era il fratello minore di mio padre, quello al quale toccò in eredità il duro mestiere del nonno, coltivare l’esigua proprietà terriera per mantenere la famiglia; senza dubbio soffrì della differenza di trattamento riservata al fratello maggiore, al quale era stata data l’opportunità di proseguire negli studi e sollevarsi da quella condizione di minorità. Ma con noi cercava di non darlo a vedere, mentre nei rapporti con nostro padre era sempre contenuto, quasi imbarazzato. Noi ragazzi gli volevamo molto bene, perché era buono e paziente.
Aveva un gran senso della moralità e dell’onestà ed un sentimento profondo di religiosità, unico della famiglia che io ricordi. La domenica andava al bagno pubblico per un’abluzione totale, poi dal barbiere a farsi bello ed infine si vestiva di tutto punto con l’abito buono, sempre lo stesso, sia d’inverno che d’estate, camicia pulita e cravatta sgargiante per andare a messa alla cattedrale, nell’ora di punta, e non si lasciava distogliere da questo programma per nessuna cosa al mondo. Gradiva che noi lo accompagnassimo, ma dovevamo avere un comportamento molto corretto, niente risolini in chiesa. Non dimenticava mai di raccomandarci l’importanza di avere la fede e quando parlava di ciò, gli occhi gli luccicavano.
Zio Luigi aveva un cucchiaio personale, al quale teneva particolarmente. A tavola voleva sempre quello e non era disposto a darlo a nessuno. Era un cucchiaio in acciaio, di fattura elegante, con un marchio del regio esercito. Era successo che, salendo sulla passerella della nave sulla quale si doveva imbarcare a Palermo con la truppa in partenza per l’Africa Orientale, affardellato com’era con zaino, sacco, giberne e fucile, il cucchiaio di stagno che aveva avuto in dotazione con la gavetta d’ordinanza, cadde in mare ed egli fu costretto, suo malgrado, a commettere una trasgressione: appena sistemato con i suoi commilitoni nella stiva a loro riservata, uscì subito in perlustrazione e passando per caso dalle parti dove vide apparecchiata la mensa degli ufficiali, rubò da un tavolo un cucchiaio che divenne il suo portafortuna. Quando fu rimandato in Italia e congedato, dovette denunciare la perdita del cucchiaio, ma nascose ben bene quello che aveva sottratto al regio esercito, intendendo conservarlo per ricordo.
In ospedale, a Teramo, per un intervento alla prostata, lo andai a trovare; era in camerata in compagnia di alcuni altri degenti che lo sfottevano dicendogli che ormai il suo attributo maschile sarebbe servito solo per urinare, egli sorridente rispondeva pacato di avere fede che prima o poi la cosa si sarebbe risolta favorevolmente.
Dopo essere rimasto una vita nella casa paterna, insieme alla famiglia della sorella Gaetana, con il marito Antonio e tre figli, nell’ordine Giovanna, Rita e Gabriele, giunto ormai alla soglia della terza età, decise di sposarsi e mettere su casa per conto proprio. La moglie, Maria, era una donna di condizione modesta, che aveva svolto attività di ricamatrice. Questa decisione però creò inaspettatamente una discrepanza con il resto della famiglia che non approvò le sue scelte. Luigi con molta dignità sopportò la separatezza che così si venne a creare soprattutto con la sorella e per il resto ebbe una vita tranquilla, seguitando a fare quello che aveva fatto fino ad allora.
Quando la moglie morì, rimase solo. A sua volta cessò di vivere una sera, per strada, mentre faceva una passeggiata lungo una via panoramica che girava intorno al paese. Si arrestò di colpo e cadde a terra senza vita.
(2. Continua)
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