LA DISCENDENZA 17

All'inizio degli anni ’30 le cose non andavano tanto male nella casa dell’ex caporale Di Eugenio Domenico, calzolaio, conosciuto nel paese come Lu scarparon' per via della sua alta statura. A svolgere l’attività di calzolaio erano in due, lui e suo nipote Simplicio, con una resa abbastanza soddisfacente. Ricordiamoci che Domenico fabbricava scarpe su misura, mentre le figlie gestivano una sartoria con annessa modisteria. Si può dire che coprivano in famiglia quasi per intero il campo dell’abbigliamento.

Il figlio Eliseo studiava in seminario con profitto e diligenza. Quando tornava a casa per le vacanze, si trovava attorniato da un nugolo di ragazze che ruotavano intorno al laboratorio delle sorelle e la cosa influiva non poco sulla sua scarsa vocazione per la missione sacerdotale. In occasione di uno dei suoi periodici ritorni il giovane Eliseo, diplomando maestro, conobbe nell’ambito della sartoria, una ragazza di straordinaria bellezza che fin dal primo momento suscitò in lui un sentimento così forte da determinare in poco tempo una svolta decisiva al corso della sua vita. L’idea di indossare ancora l'abito talare del seminario gli sembrò inaccettabile. D’altro canto Floria – questo il nome della ragazza – avvedutasi dell’effetto che la sua persona aveva prodotto sul giovanotto, si dimostrò a sua volta sensibile al fascino del suo ammiratore, per cui fu del tutto naturale che tra i due nascesse un amore profondo, come solo i giovani sanno provare. Un vero colpo di fulmine: Eliseo decise che quella sarebbe stata la sua compagna per tutta la vita.



Per prima cosa lasciò il seminario, ma trovò il modo di continuare gli studi presso l’istituto magistrale di Teramo, alloggiando in casa di amici che lo sostennero nella sua azione. Conseguito il diploma di insegnante elementare, ebbe il suo primo incarico presso la scuola di Rosello, un paesino del chietino, dove rimase alcuni anni. In questo periodo di allontanamento dalla famiglia, realizzò il suo sogno d’amore, sposando in segreto la sua amata Floria che portò a vivere con lui, nell’ultimo anno di permanenza a Rosello. Aveva all’incirca 23-24 anni e l’epoca era intorno al 1934-35, in piena era fascista, quelli che furono “gli anni del consenso”. Nel turbine di quel periodo storico, in cui perfino personaggi come Benedetto Croce e Luigi Pirandello, pur senza aderire all’ideologia fascista, riconobbero la necessità dell’opera “normalizzatrice” di Mussolini, senza denunciare invece i guasti, già molto evidenti, di una tirannia fondata sull’inganno e la violenza, Eliseo dovette affrontare un dramma tutto personale, nel tempo folle in cui non l’individuo contava, ma solo la “massa”, andando incontro con ammirevole coraggio, ad un dissidio con i suoi congiunti, di portata devastante per le conseguenze che ne derivarono e che si trascinarono per molto tempo.

Tutti i grandi amori nascono dal contrasto che si crea per ragioni le più svariate intorno alle persone dei due innamorati. In genere è la famiglia di lui o di lei a non approvare la scelta d’amore di figli o parenti, attribuita sempre ad infatuazione passeggera quindi facilmente contrastabile. I motivi possono essere differenza di età tra i due, di condizioni economiche delle rispettive famiglie, di religione, di pensiero politico. O semplice maldicenza. Nel caso di Eliseo e di Floria, il motivo di dissenso, sorto dapprima come pretesto, assurto ben presto a causa determinante, era agli occhi dei genitori e delle sorelle di Eliseo, la “colpa” di Floria di esser figlia di Giulia, che nel paese era considerata donna di scarsa moralità, perché si era unita “more uxorio” con un uomo dopo essere stata abbandonata dal marito.

Giulia, o Giulietta, come veniva chiamata era una donna forte, provata dalla vita, ma dalla vitalità inesausta. Era una delle tante “vedove bianche” create dal fenomeno migratorio. Gli uomini, i mariti, che lasciavano l’Italia per lavoro, spesso, nel paese di accoglienza, si dimenticavano di avere una famiglia abbandonata in patria. Nel suo caso il marito era partito per gli Stati Uniti d’America, lasciandola sola a Bellante con due figlie piccole, Virginia ed Evelina. Dopo qualche tempo, lo stesso fece richiesta di avere con sé le due figlie, ma non la moglie, in quanto egli si era già fatta un’altra famiglia e non sarebbe più tornato a Bellante. Quando rimase sola, Giulietta era ancora giovane ed attraente; per vivere gestiva un negozio di frutta e verdura ed era costantemente sotto gli occhi di tutti. I maligni ebbero buon gioco quando lei, stanca di essere sola, sfidando i pregiudizi dei benpensanti del paese che avrebbero voluto vederla invecchiare in una rassegnata tristezza vedovile, andò a vivere con Nemesio Casalena, un emigrante da poco rientrato dagli Stati Uniti e per tutti divenne un’adultera. Dalla loro unione nacquero tre figli: Floria, Consalvo e Beltrame, che convissero con le figlie del marito fedifrago fino alla partenza di esse per raggiungere il padre in America.

Nemesio aveva lavorato in America in una fonderia ed al suo ritorno, era quasi completamente sordo. Con i suoi risparmi depositati presso una banca, aveva iniziato un’impresa edile a Bellante; purtroppo le cose non andarono bene: la banca fallì ed anche l’impresa subì la stessa sorte. Nemesio perse ogni cosa. Da allora la famiglia subì un progressivo decadimento e l’uomo divenuto tendenzialmente malinconico, si chiuse in un isolamento, dal quale si liberò solo da vecchio, per l’unica via che a lui sembrò ancora percorribile, togliersi la vita. Una triste mattina, Fiorella ed io, usciti di casa per andare in centro, nell’attraversare il ponte S.Franceso, come facevamo ogni giorno, vedemmo un piccolo assembramento di folla che si sporgeva curiosa da una spalletta del ponte. Un uomo si era buttato di sotto e non si sapeva chi fosse. Più tardi apprendemmo della sua fine.

Nemesio non era un uomo comune; aveva interessi intellettuali (da autodidatta leggeva Dante ed altri grandi della nostra letteratura) ed un profondo senso morale e spirituale. A casa aveva lasciato un biglietto per giustificare il suo gesto. “Nel primo periodo della mia vita mi credetti fortunato nell’ultima guerra e poi tutto per me diventò oscuro. Oggi, nella vecchiaia, mentre avrei bisogno e diritto al riposo l’unica convenienza che trovo è farla finita. Non voglio tornare a Bellante, desidero essere sepolto nel cimitero più prossimo del luogo della mia fine dove non conosco nessuno e nessuno mi conosce. Spero riposare in pace. Perdonate o Signore quest’ultima mia, che spero dalla vostra grandezza sia perdonabile mancanza”.

I motivi di dissenso che contrastarono il matrimonio di Eliseo con Floria non furono però soltanto di natura moralistica, basati sui pregiudizi, i pettegolezzi e l’ipocrisia dei paesani, erba velenosa che nasce in ogni campo, ma avevano un fondamento ben più radicato e consisteva nella convinzione dei genitori e di quanti all’epoca frequentassero la casa di Domenico, che Eliseo, una volta sistemato come maestro, con i sacrifici di tutta la famiglia, avesse un debito di riconoscenza nei confronti della stessa e dovesse contribuire al suo mantenimento, piuttosto che pensare egoisticamente a sé solo ed andare via per sposarsi.

Il padre in particolare era in quei giorni assillato dalla prossima scadenza di una cambiale che non poteva pagare e chiedeva insistentemente che fosse il figlio a provvedervi. Eliseo aveva preso servizio a Rosello ed il padre gli inviava lettere accorate con la richiesta di aiuto, ricordandogli quale fosse il suo dovere e minacciandolo, in caso di non assolvimento, di farlo oggetto della sua maledizione di padre.

“Invece di pensare ad altro, vedi di preoccuparti di tuo padre che è ridotto quasi alla miseria…alla mia età (aveva 60 anni) sono costretto ancora a lavorare…e sono stufo di ‘inzuldi e frizzate che devo sopportare dal fango del paese… Quindi ti raccomando di finirla…Credo che vorrai ancora essere mio figlio”. E’ l’ultimo appello del padre. Al rifiuto del figlio che si protestava non in grado di aiutarlo (“il mio stipendio è di appena 3 lire al giorno”), la collera del padre era esplosa in tutta la sua violenza e nei confronti di Raul (così veniva chiamato in famiglia l’ingrato figlio), si verificò un vero e proprio ostracismo.

Da qui un Calvario infinito. In una lettera di tre pagine, vergate da Raul con una scrittura minutissima, purtroppo senza data, il reietto prova a spiegare le sue ragioni e si dispera per il fatto di essere stato abbandonato dai genitori e dalle sorelle. Si appella alla loro ragionevolezza perché capiscano che è ingiusto il loro comportamento ed infondato il giudizio che essi hanno di Floria, anche da un punto di vista della condizione sociale degli sposi. Lei figlia di una fruttivendola, lui figlio di un calzolaio; che differenza può esserci? Ribadisce il suo amore per loro, anche di fronte alla loro assurda ostinatezza, negargli il diritto alla felicità! Su un punto però non molla: non lascerà mai e poi mai Floria, a costo anche di una rottura definitiva. Non è chiaro se la lettera sia stata spedita prima del matrimonio segreto, come estremo tentativo di comporre pacificamente il dissenso, o successivamente come atto riparatorio.

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