LA DISCENDENZA 16
Mancano documenti relativi al ritorno in famiglia di Domenico in quel primo dopoguerra successivo alla vittoria, ma è presumibile che egli, a parte le difficoltà di reinserimento nella vita civile, dopo la lunga permanenza in quella militare, non abbia trovato condizioni economiche favorevoli, data la generale situazione dell’Italia per le ferite aperte dalla guerra e per lo scontro che subito si annunciò durissimo fra le diverse componenti della società, da una parte le classi lavoratrici salariate e dei braccianti dell' agricoltura, i cui interessi erano rappresentati da un forte partito socialista, dall'altra quelle dominanti, formate dai datori di lavoro, industriali ed agrari con in mezzo la borghesia e una gran quantità di reduci dalla guerra, disorientati che facevano affidamento sulle promesse fatte di agevolazioni che essi avrebbero ricevuto a guerra finita, per il reinserimento nel contesto sociale e lavorativo, e che invece si ritrovarono abbandonati a se stessi, cosa che aveva creato molte delusioni e scontenti, tanto che si cominciò a parlare di vittoria mutilata.
In questa situazione di estrema confusione cominciò a farsi strada un piccolo partito che si chiamò fascista, con a capo un ex socialista, Benito Mussolini, figlio di un fabbro della Romagna rossa, di professione maestro, il quale si era distinto in qualità anche di direttore dell’Avanti, portato da lui ad una tiratura mai avuta prima, per le sue posizioni contrarie all’entrata in guerra, poi convertito in un fervente interventista, tanto che era stato espulso dal partito e ripudiato come “traditore”. In nome dell’ordine da ripristinare, e data l’assenza dello stato, che non riusciva a contenere i disordini, Mussolini istituì i vari “fasci di combattimento” locali, che dalla Romagna e dalla Lombardia, cominciarono a diffondersi un po' dovunque, formati da squadre che avevano il compito di “normalizzare” la situazione con attacchi alle camere del lavoro, alle sedi delle leghe contadine, agli esponenti sindacali e politici dei partiti di sinistra. I metodi violenti usati dai fascisti trovavano l’alibi in precedenti disordini creati dai socialisti (scioperi, ma anche bastonature di crumiri ed altre violenze), con la conseguenza che quella che si scatenò fu una vera e propria guerra civile, con la connivenza delle istituzioni, l’incoraggiamento ed il finanziamento dei potentati agrari ed industriali e la ”distrazione” della polizia. Ben presto la lotta assunse la caratterista di una violenza diffusa, che era, per quanto riguardava i socialisti, essenzialmente di difesa, mentre da parte dei fascisti era di aggressione. Con questi sistemi Mussolini, che aveva cominciato a farsi chiamare il "Duce", fondò il Partito Nazionale Fascista, che, iniziò ad aggregare sempre più le masse cittadine e nel 1922, a seguito della c.d. “marcia su Roma”, una messa in scena grottesca di patriottismo e cialtroneria, con Mussolini che scendendo da Milano verso la capitale, dal finestrino del treno benediceva la folla dei “marcianti”, che nel frattempo era stata tenuta a marcire sotto la pioggia per due giorni, in attesa che si compissero gli accordi segreti fra il "Duce" e le istituzioni, rappresentate in quella occasione da un Presidente del Consiglio dimissionario, prese il potere e così iniziò il periodo più triste della storia italiana.
Ma i mali non finirono lì. Una spaventosa epidemia di influenza mortale dilagò per il continente europeo, mietendo milioni di vittime. In casa Di Eugenio, a Bellante, il povero Domenico tornato decorato dalla guerra, in pochi anni, perse due figli maschi nati dopo il suo ritorno che avrebbero dovuto costituire la sua polizza di assicurazione per la vecchiaia, visto che all’epoca non era ancora stata istituita la pensione per gli artigiani. g
Fu anche in quel periodo che si verificò uno degli endemici flussi migratori degli italiani, con masse di diseredati che dal sud del Paese confluivano verso i centri urbani del nord in cerca di lavoro, e molti che, facendo una scelta più radicale, emigravano verso altri Paesi del nord Europa, Francia o Belgio, o dell’America del Nord, Stati Uniti, o del Sud, Venezuela, Brasile o Argentina.
Domenico aveva accolto in casa il figlio di un fratello emigrato in America, di nome Simplicio, che aveva perso la madre e che era considerato in famiglia come un quarto figlio. Successe che, superata la fase dell’istruzione elementare, si pose per Domenico il problema di come indirizzare i quattro ragazzi. Con una scelta che al momento poté sembrare ingiusta, le due ragazze furono avviate ad un mestiere, Maria sarta ed Azelia modista, ma ben presto fu chiaro che essa era stata accorta e meditata; Maria ed Azelia dimostrarono capacità imprenditoriali e la loro attività decollò, contribuendo molto al mantenimento di un tenore di vita decoroso per l’intera famiglia. Meno giusta, ma dolorosamente necessitata fu invece la scelta che egli fu costretto a fare nei confronti dei due ragazzi. Non avendo i mezzi necessari per dare la possibilità ai due di proseguire negli studi, egli preferì Eliseo, suo figlio, che mostrava di avere spiccate doti di intelligenza e fantasia, ed in suo favore brigò tramite conoscenze che aveva nell'ambito ecclesiastico, per farlo entrare in seminario, che era allora l’unico modo di mandare a scuola i nullatenenti, indipendentemente dalla vocazione religiosa. Ben altra sorte toccò al figlio del fratello, Simplicio, che egli prese con sé come apprendista calzolaio.
Da quel momento l’amicizia fraterna che era alla base del rapporto tra i due ragazzi, subì un arresto e Simplicio, che dopo qualche tempo, prese la via dell’America sulle orme del padre, anche dopo essersi formata una famiglia ed affermato sul lavoro con discreto successo, sempre mostrò di portare i segni di quella ferita inferragli dal comportamento discriminatorio da parte di quello che egli considerava come un padre. Eliseo dal canto suo, mostrava di avere molti interessi ma nessuna vocazione, per cui la sua permanenza presso quell’Istituto durò solo pochi anni.
Maria, dopo un corso di taglio e cucito seguito a Torino con molto interesse, aveva iniziato la sua attività di sarta per signore, presso la casa paterna, che presto assunse i caratteri di azienda artigianale, che includeva anche l'opera della sorella come modista.
Nel periodo più fiorente della sua attività, la sartoria vide avvicendarsi presso il suo laboratorio, decine di ragazze, apprendiste e lavoranti che venivano anche dai paesi vicini a Bellante. Per molti anni la sartoria svolse un’attività apprezzata in tutto il contado, specializzandosi nella confezione di abiti da sposa, grazie all’abilità di Maria nel creare modelli originali e all’affabilità dei rapporti che lei sapeva intrattenere con le clienti e con le lavoranti, per le quali appariva come una benefattrice. La figura di questa donna meriterebbe un capitolo a parte. Con la sua impresa procurò lavoro a tante ragazze, ma lei, non soddisfatta di questa sua opera di carattere sociale, si impegnò anche nella vita politica e civile, con scelte all'epoca molto coraggiose. Aderì fin da subito al ricostituito Partito Comunista, uscito dalla forzata clandestinità del periodo fascista, e si presentò candidata nelle sue liste alle prime elezioni amministrative del Comune di Bellante, nella cui amministrazione operò per anni come Consigliera comunale.
Il prete “storico” del paese, Don Mario, molto noto per la sua abilità nella cura delle “anime” dei suoi parrocchiani ed altre qualità in cui eccelleva, pur dimostrando stima nei confronti di questa “pasradan”, dopo la promulgazione del decreto del Sant'Uffizio pubblicato mel 1949, che aveva comminato la scomunica nei confronti degli iscritti ai partiti marxisti, si era visto costretto ad escluderla dai sacramenti. Ma, dopo l’abbandono da parte delle autorità ecclesiastiche di una posizione così poco illuminata e controproducente, alla sua morte, avvenuta negli anni ’80, nell’omelia pronunciata alla sua funzione funebre, ebbe a pronunciare, oltre alle lodi per il suo impegno in vari campi ddi applicazione, rivolto al suo feretro e con accento di sincera commozione: “se tutte le spose che tu hai portato all’altare, nel corso della tua vita ben spesa, belle e risplendenti agli occhi del Signore, potessero essere oggi qui presenti, questa Chiesa sarebbe inondata di lacrime”.
In questa situazione di estrema confusione cominciò a farsi strada un piccolo partito che si chiamò fascista, con a capo un ex socialista, Benito Mussolini, figlio di un fabbro della Romagna rossa, di professione maestro, il quale si era distinto in qualità anche di direttore dell’Avanti, portato da lui ad una tiratura mai avuta prima, per le sue posizioni contrarie all’entrata in guerra, poi convertito in un fervente interventista, tanto che era stato espulso dal partito e ripudiato come “traditore”. In nome dell’ordine da ripristinare, e data l’assenza dello stato, che non riusciva a contenere i disordini, Mussolini istituì i vari “fasci di combattimento” locali, che dalla Romagna e dalla Lombardia, cominciarono a diffondersi un po' dovunque, formati da squadre che avevano il compito di “normalizzare” la situazione con attacchi alle camere del lavoro, alle sedi delle leghe contadine, agli esponenti sindacali e politici dei partiti di sinistra. I metodi violenti usati dai fascisti trovavano l’alibi in precedenti disordini creati dai socialisti (scioperi, ma anche bastonature di crumiri ed altre violenze), con la conseguenza che quella che si scatenò fu una vera e propria guerra civile, con la connivenza delle istituzioni, l’incoraggiamento ed il finanziamento dei potentati agrari ed industriali e la ”distrazione” della polizia. Ben presto la lotta assunse la caratterista di una violenza diffusa, che era, per quanto riguardava i socialisti, essenzialmente di difesa, mentre da parte dei fascisti era di aggressione. Con questi sistemi Mussolini, che aveva cominciato a farsi chiamare il "Duce", fondò il Partito Nazionale Fascista, che, iniziò ad aggregare sempre più le masse cittadine e nel 1922, a seguito della c.d. “marcia su Roma”, una messa in scena grottesca di patriottismo e cialtroneria, con Mussolini che scendendo da Milano verso la capitale, dal finestrino del treno benediceva la folla dei “marcianti”, che nel frattempo era stata tenuta a marcire sotto la pioggia per due giorni, in attesa che si compissero gli accordi segreti fra il "Duce" e le istituzioni, rappresentate in quella occasione da un Presidente del Consiglio dimissionario, prese il potere e così iniziò il periodo più triste della storia italiana.
Ma i mali non finirono lì. Una spaventosa epidemia di influenza mortale dilagò per il continente europeo, mietendo milioni di vittime. In casa Di Eugenio, a Bellante, il povero Domenico tornato decorato dalla guerra, in pochi anni, perse due figli maschi nati dopo il suo ritorno che avrebbero dovuto costituire la sua polizza di assicurazione per la vecchiaia, visto che all’epoca non era ancora stata istituita la pensione per gli artigiani. g
Fu anche in quel periodo che si verificò uno degli endemici flussi migratori degli italiani, con masse di diseredati che dal sud del Paese confluivano verso i centri urbani del nord in cerca di lavoro, e molti che, facendo una scelta più radicale, emigravano verso altri Paesi del nord Europa, Francia o Belgio, o dell’America del Nord, Stati Uniti, o del Sud, Venezuela, Brasile o Argentina.
Domenico aveva accolto in casa il figlio di un fratello emigrato in America, di nome Simplicio, che aveva perso la madre e che era considerato in famiglia come un quarto figlio. Successe che, superata la fase dell’istruzione elementare, si pose per Domenico il problema di come indirizzare i quattro ragazzi. Con una scelta che al momento poté sembrare ingiusta, le due ragazze furono avviate ad un mestiere, Maria sarta ed Azelia modista, ma ben presto fu chiaro che essa era stata accorta e meditata; Maria ed Azelia dimostrarono capacità imprenditoriali e la loro attività decollò, contribuendo molto al mantenimento di un tenore di vita decoroso per l’intera famiglia. Meno giusta, ma dolorosamente necessitata fu invece la scelta che egli fu costretto a fare nei confronti dei due ragazzi. Non avendo i mezzi necessari per dare la possibilità ai due di proseguire negli studi, egli preferì Eliseo, suo figlio, che mostrava di avere spiccate doti di intelligenza e fantasia, ed in suo favore brigò tramite conoscenze che aveva nell'ambito ecclesiastico, per farlo entrare in seminario, che era allora l’unico modo di mandare a scuola i nullatenenti, indipendentemente dalla vocazione religiosa. Ben altra sorte toccò al figlio del fratello, Simplicio, che egli prese con sé come apprendista calzolaio.
Da quel momento l’amicizia fraterna che era alla base del rapporto tra i due ragazzi, subì un arresto e Simplicio, che dopo qualche tempo, prese la via dell’America sulle orme del padre, anche dopo essersi formata una famiglia ed affermato sul lavoro con discreto successo, sempre mostrò di portare i segni di quella ferita inferragli dal comportamento discriminatorio da parte di quello che egli considerava come un padre. Eliseo dal canto suo, mostrava di avere molti interessi ma nessuna vocazione, per cui la sua permanenza presso quell’Istituto durò solo pochi anni.
Maria, dopo un corso di taglio e cucito seguito a Torino con molto interesse, aveva iniziato la sua attività di sarta per signore, presso la casa paterna, che presto assunse i caratteri di azienda artigianale, che includeva anche l'opera della sorella come modista.
Nel periodo più fiorente della sua attività, la sartoria vide avvicendarsi presso il suo laboratorio, decine di ragazze, apprendiste e lavoranti che venivano anche dai paesi vicini a Bellante. Per molti anni la sartoria svolse un’attività apprezzata in tutto il contado, specializzandosi nella confezione di abiti da sposa, grazie all’abilità di Maria nel creare modelli originali e all’affabilità dei rapporti che lei sapeva intrattenere con le clienti e con le lavoranti, per le quali appariva come una benefattrice. La figura di questa donna meriterebbe un capitolo a parte. Con la sua impresa procurò lavoro a tante ragazze, ma lei, non soddisfatta di questa sua opera di carattere sociale, si impegnò anche nella vita politica e civile, con scelte all'epoca molto coraggiose. Aderì fin da subito al ricostituito Partito Comunista, uscito dalla forzata clandestinità del periodo fascista, e si presentò candidata nelle sue liste alle prime elezioni amministrative del Comune di Bellante, nella cui amministrazione operò per anni come Consigliera comunale.
Il prete “storico” del paese, Don Mario, molto noto per la sua abilità nella cura delle “anime” dei suoi parrocchiani ed altre qualità in cui eccelleva, pur dimostrando stima nei confronti di questa “pasradan”, dopo la promulgazione del decreto del Sant'Uffizio pubblicato mel 1949, che aveva comminato la scomunica nei confronti degli iscritti ai partiti marxisti, si era visto costretto ad escluderla dai sacramenti. Ma, dopo l’abbandono da parte delle autorità ecclesiastiche di una posizione così poco illuminata e controproducente, alla sua morte, avvenuta negli anni ’80, nell’omelia pronunciata alla sua funzione funebre, ebbe a pronunciare, oltre alle lodi per il suo impegno in vari campi ddi applicazione, rivolto al suo feretro e con accento di sincera commozione: “se tutte le spose che tu hai portato all’altare, nel corso della tua vita ben spesa, belle e risplendenti agli occhi del Signore, potessero essere oggi qui presenti, questa Chiesa sarebbe inondata di lacrime”.
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